Transius Conference 2018, Ginevra 18–20 giugno 2018

  • Autore: Jean-Luc Egger
  • Categoria di articoli: Resoconti di convegni
  • Citazione: Jean-Luc Egger, Transius Conference 2018, Ginevra 18–20 giugno 2018, in: LeGes 29 (2018) 2
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Il Centre d’études en traduction juridique et institutionnelle (Transius) dell’Università di Ginevra ha riunito per tre giorni circa 300 addetti ai lavori provenienti dai più disparati Paesi e Continenti (fra cui Australia, Cina, Europa, Canada e America) in un ricco convegno che, secondo le parole inaugurali del presidente del Comitato organizzatore, F. Prieto Ramos, è stato concepito innanzi tutto come occasione d’incontro e di scambio di esperienze e informazioni tra il mondo della prassi (le istituzioni) e il mondo della ricerca (le accademie). Un convegno appunto ricco: per la quantità dei contributi scientifici, circa 95, per la qualità ineccepibile dell’organizzazione, per il livello elevato degli interventi, ma anche per la molteplicità delle problematiche e realtà affrontate, tutte ruotanti intorno all’attività del tradurre esercitata in ambito o per fini istituzionali.

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Si fa presto a dire «traduzione», ma dietro a questa parola si cela – anche solo nello specifico contesto istituzionale – un’opera eminentemente umana (è importante ricordarlo) fatta di approcci epistemologici, prassi, esigenze e metodi gestionali molto variegati, a cominciare dal significato stesso di traduzione. Lo ha notato fin dall’inizio J.-C. Gémar ripercorrendo nella sua lezione magistrale le vicissitudini della traduzione del Codice Napoleonico e sottolineando che anche in ambito giuridico l’atto traduttivo può e deve tendere essenzialmente a un’equivalenza presunta o a un’equivalenza senza identità, come aveva intuito già Paul Ricoeur. Una concezione, questa, che per la sua provocante verità – scomoda per taluni – è stata una sorta di filo rosso delle tre giornate durante le quali si sono delineate non poche puntualizzazioni essenziali.

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Ma si diceva appunto della diversità delle realtà traduttive. I vincoli e le finalità contestuali incidono infatti in modo decisivo, al punto da poter inibire l’atto traduttivo stesso oppure esaltarlo. Presso la Corte penale internazionale (e non, come ha avvertito M.-J. De Saint-Robert, Tribunale criminale internazionale come si sarebbe potuto tradurre pedestremente la denominazione International Criminal Court) ci sono ad esempio i vincoli dettati dalla crudezza dei fatti su cui si delibera: fino a che punto l’orrore si lascia articolare in linguaggio e poi tradurre?, considerando inoltre il forte tasso di illettrismo che caratterizza generalmente i paesi implicati, con le relative difficoltà a reperire specialisti nelle lingue del posto (A. W. Benson). Per garantire l’universalità dell’applicazione degli strumenti pattizî creati per sanzionare i più gravi crimini contro l’umanità, in primis lo Statuto di Roma, occorrerebbe poter far capo a un’universalità di significati ma, come ha spiegato M.-H. Girard, ci si accorge che nel recepire questa carta fondamentale del diritto internazionale penale i singoli Stati parte reinventano la traduzione al fine di adeguare la definizione di termini chiave, come ad esempio «meurtre», alle loro priorità politiche. Presso il Consiglio di sicurezza dell’ONU (ne ha riferito H. Tao) il traduttore deve saper distinguere chiaramente il significato diplomatico dei termini che è chiamato a volgere in altro idioma dalla accezione giuridica, e tali distinzioni non sono sempre descritte nei dizionari, come ad esempio per decidere se scrivere «razzo» piuttosto che «missile». La traduzione istituzionale non è poi sempre pienamente istituzionalizzata: la parificazione ufficiale dell’italiano e del tedesco nella provincia autonoma di Bolzano non implica necessariamente una presenza significativa di traduttori professionisti nell’amministrazione locale, con le conseguenze che si possono immaginare sulla qualità delle traduzioni (De Camillis).

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E proprio le relazioni incentrate sulla qualità della traduzione hanno riservato qualche sorpresa. È ad esempio stata messa seriamente in dubbio l’utilità della revisione classica, ossia la rilettura di un testo tradotto effettuata da un collega con maggiore esperienza. Secondo J.-M. Gardette (della Corte di Giustizia dell'Unione europea) essa non dovrebbe essere soppressa, ma ripensata quale attività specifica comprendente un ordinato insieme di prassi e processi come l’editing, la consultazione di assistenti, il coordinamento con altre unità linguistiche, i riscontri puntuali degli utenti, la valutazione dei rischi inerenti al tipo di documenti e via dicendo. Una riflessione articolata sulla nozione di qualità è stata pure condotta presso la Direzione generale della traduzione (DGT) della Commissione europea. Qui la quantità di pagine tradotte, le combinazioni linguistiche in gioco e le scadenze inderogabili hanno imposto un approccio strutturato al concetto di qualità capace di comprendere anche aspetti extralinguistici quali l’autore, lo scopo e il contesto documentale, per giungere in definitiva ad una definizione di qualità di un testo in termini di «adeguatezza allo scopo» (fit for purpose). In questo senso, ha spiegato I. Strandvik, la qualità non è un valore assoluto ma varia a seconda delle aspettative dei portatori di interesse e il suo perseguimento fa capo alla coefficienza di un insieme di prassi e accorgimenti, come la cura accentuata del testo originale (secondo un’indagine interna circa il 50 per cento (sic!) degli errori «di traduzione» sarebbero riconducibili a carenze del testo di partenza), aumento della competenza materiale del traduttore, accresciuta comunicazione tra autore, traduttore e revisore, applicazione rigorosa delle direttive stilistiche interne, concertazioni e coordinamenti interlinguistici, presentazione dei grandi progetti legislativi prima del loro esame linguistico, accompagnamento dei testi lungo tutto l’iter procedurale da una scheda informativa che registra le domande, gli aspetti problematici e le informazioni di pertinenza traduttiva (cosiddetta nota Elise, acronimo per European Institutions Linguistic Information Storage and Exchange). La cura della qualità può anche assumere la forma di un organo amministrativo a sé stante come l’Unité de coordination de la qualité presso il Parlamento europeo, un gruppo di cinque persone che sovrintendono a varie misure accompagnatorie dei processi di elaborazione dei testi per garantirne la qualità (ne ha riferito A. Vaasa).

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La cura della qualità delle traduzioni in ambito istituzionale non è però soltanto scrupolo deontologico o rispetto dovuto alle lingue ufficiali dell’istituzione in questione, ma diventa anche pegno di giustizia e di equo trattamento del cittadino o delle persone coinvolte in procedimenti giudiziari. In questo ordine di idee, stupisce che la direttiva 2010/64/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, volta a garantire un’assistenza linguistica adeguata agli imputati o indagati in procedimenti penali e che sancisce l’equazione fondamentale tra equità e qualità dei servizi linguistici (art. 2 par. 8: «L’interpretazione fornita ai sensi del presente articolo dev’essere di qualità sufficiente a tutelare l’equità del procedimento»), sia recepita in modo assai differenziato a seconda degli Stati membri. Come ha puntualizzato S. Alves, il problema risiede in parte nell’inadempienza, ma anche – paradossalmente – nello stile impreciso e nella portata non vincolante delle disposizioni della direttiva (ad esempio, cosa significa concretamente «qualità sufficiente»?).

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Da qui l’importanza di una scrittura precisa e comprensibile, un obiettivo di cui dagli anni 1990 le istituzioni hanno preso viepiù coscienza svolgendo un’ampia riflessione e dandosi anche gli strumenti formali per perseguirlo, segnatamente emanando direttive sul plain language, codici di stile, manuali e raccomandazioni. L’applicazione di questi strumenti non è sempre scontata; in alcuni testi svizzeri destinati al pubblico si è constatata una prassi oscillante (A. Felici, C. Griebel), mentre a volte sembra che lo stile ingessato sia connaturato alla tipologia testuale giuridica: lo ha mostrato un’analisi condotta dall’università di Alicante su clausole generali di contratti scritte in modo informale in inglese e tradotte nel più rigido giuridichese spagnolo (M. Á. Campos-Pardillos). Ma la comprensibilità implica anche uniformità e costanza, massime nella terminologia fondamentale; la dispersione è ad esempio grande nell’uso comune di espressioni come «changement climatique», «changement du climat», «évolution du climat», «rechauffement du globe» e via dicendo, ma constatare la stessa dispersione in un corpus di testi del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC) risulta quanto meno sconcertante (C. Biros, A. Talbot). Vero è che non sempre la sanzione ufficiale di un termine ne assicura un uso uniforme: il fatto che gli statuti societari in Perù siano definiti «estatuto» al singolare non impedisce ad avvocati e notai di usare il plurale «estatutos» (M. A. Monteagudo); analogamente, la scelta – ben ponderata linguisticamente e concettualmente – da parte del servizio dell’ONU preposto alla neonimia di «Pays en développement» non ha impedito il dilagare di «Pays en voie de développement» (M.-J. De Saint-Robert), secondo una logica dell’imitazione irriflessiva piuttosto che dell’uso oculato. Si ripropone in questo caso il dissidio classico tra norma e uso, su cui non possiamo evidentemente soffermarci tranne che per constatare una indulgenza assai diffusa al giudizio superficiale e immediato a scapito dell’analisi: di fronte a ciò che non rientra nelle coordinate – talvolta anguste – del nostro sapere (Michel Foucault parlava del «régime du vrai») si grida subito all’errore, senza porsi nessuna domanda, un atteggiamento spesso riscontrato proprio in ambito traduttivo (il malcelato paternalismo di cui ha riferito J.-L. Egger).

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Il Convegno ha affrontato numerosi altri temi a cui qui possiamo solo accennare di sfuggita: la pertinenza e i pericoli dell’uso dell’intelligenza artificiale per la traduzione (E. Wiesmann), l’emergenza di nuove categorie di concetti giuridici in un mondo in cui le tradizioni e i linguaggi del diritto si mescolano ibridandosi (B. Pozzo), l’influenza dell’inglese unionale sulle altre lingue europee e l’affermarsi di euroletti (L. Mori e F. Proia), la natura interdisciplinare dell’atto traduttivo (I. Simonnæs), l’approccio didattico dell’analisi linguistica di famiglie di tipologie testuali specifiche, come quella degli «Strafakte» nel diritto tedesco (T. Reichmann) e molte altre ancora, quasi a simboleggiare l’inesauribile fecondità e conseguente problematicità della disciplina. Si attendono ora con impazienza gli atti di questo memorabile evento.


Jean-Luc Egger, Cancelleria federale, Servizi linguistici centrali, Divisione italiana, Berna, e-mail: jean-luc.egger@bk.admin.ch.