Il comparatista, detto banalmente, compara ordinamenti giuridici differenti. Al di là delle differenze intrinseche, dovute soprattutto all’esistenza di istituti giuridici propri a determinati sistemi ma estranei ad altri, uno scarto importante riguarda nella maggior parte dei casi la lingua in cui gli ordinamenti giuridici messi a confronto sono formulati. Le autrici del libro in esame, entrambe comparatiste1, incentrano il loro discorso proprio sulla componente linguistica contrastiva inserita con rilevanza preminente nel più ampio discorso del diritto comparato. Da qui il passo al discorso traduttivo, e traduttologico, è breve. La relazione fra i due ambiti, che si esplicita fin dal titolo dell’opera, fa da filo rosso a tutto il saggio. E infatti puntualizzano: «la traduzione giuridica è sempre stata considerata una delle questioni chiave della comparazione giuridica» (94)2.
Strutturato in cinque capitoli, il libro rielabora alcune voci in materia di traduzione giuridica e lingua del diritto già pubblicate nel Digesto Civile delle discipline privatistiche e riflette l’esperienza maturata dalle autrici nei corsi di traduzione giuridica impartiti all’Università degli Studi dell’Insubria e all’Università degli Studi di Milano. Grazie alle sue finalità didattiche, il volume è espressamente concepito come «manuale da adottare sia nei corsi di laurea in giurisprudenza che in quelli di mediazione linguistica e culturale» (XIII).
Il primo capitolo (Introduzione) delinea le tematiche dei capitoli successivi mettendo a fuoco i problemi generali legati alla lingua del diritto e alla traduzione giuridica e sottolineando il fatto che, da un lato, «la comprensione dell’evoluzione del linguaggio giuridico e il divenire dei diversi linguaggi giuridici in prospettiva storica ci offre la chiave per comprendere le difficoltà di traduzione oggi esistenti» e, dall’altro, che «è nella prospettiva storica che si comprende come certe parole abbiano acquisito o perso un certo valore, mettendo in luce come un certo linguaggio possa essere compreso solo con riferimento ad un certo contesto culturale» (2).
Il secondo capitolo, intitolato La lingua del diritto, esordisce evidenziando la forte dimensione sociale propria sia alla lingua che al diritto, entrambi considerati sistemi normativi: «la lingua come strumento di comunicazione con gli altri consociati, il diritto come strumento di organizzazione della convivenza» (18).
Segue una presentazione storica della lingua del diritto, dall’abbandono del diritto consuetudinario con l’avvento della forma scritta, in latino (lingua franca dell’epoca), al passaggio ai volgari, all’importanza del codice napoleonico. La lingua tedesca s’impone come lingua della dottrina e l’inglese, infine, diventa lingua franca del diritto. A proposito dell’inglese e delle difficoltà di traduzione verso le altre lingue europee, le autrici spiegano come l’autonoma evoluzione del sistema giuridico di common law renda alcuni istituti unici in tale contesto e alcuni suoi concetti di riferimento intraducibili (51), talché in alcune occasioni è – paradossalmente – necessario che il traduttore impari a non tradurre (110).
Benché sia considerata un linguaggio specialistico, la lingua del diritto presenta caratteristiche che la distinguono dalle altre lingue speciali, prima fra tutte la forte permeabilità ad altri linguaggi (83), ma poi anche l’ampia dose di polisemia dei suoi termini (72) e la stratificazione storica. Sotto il profilo terminologico, interessante la distinzione tra il linguaggio del legislatore, che «si caratterizza per un elevato grado di astrattezza, volta a soddisfare l’esigenza di creare categorie e regole applicabili a una molteplicità di situazioni», e il linguaggio giurisprudenziale e quello della prassi, che, «riguardando fattispecie concrete, presentano un carattere meno astratto» (71).
Nei confronti dei recenti sforzi profusi in favore del cosiddetto plain language le autrici, constatato che «la sostituzione di un termine tecnico-giuridico con una parola di uso comune può ingenerare confusioni e inesattezze, in quanto il termine del linguaggio ordinario assume un suo significato specifico in ambito giuridico, che diverge appunto da quello ordinario», assumono una posizione piuttosto critica: «l’uomo comune avrà solo l’illusione di comprenderne il significato, in quanto la comprensione effettiva presuppone la conoscenza dell’ordinamento giuridico di cui è espressione» (89).
Nel terzo capitolo, La traduzione giuridica, dopo alcuni cenni storici il discorso si focalizza su questioni teoriche della traduzione, non solo giuridica, corredate di utili esempi. In campo giuridico la preferenza è accordata dalle autrici alla teoria funzionalista della traduzione, che «implica la combinazione di vari elementi: autore del testo di partenza; destinatario del testo di arrivo; tipo, scopo e occasione di utilizzo della traduzione; supporto del testo di arrivo; committente» (118).
Il quarto capitolo, denominato Le sfide della traduzione giuridica nei contesti multilingue, analizza sostanzialmente i metodi di produzione di testi legislativi in Stati e organismi dotati di una legislazione in più lingue, come il Canada e la Svizzera, rispettivamente le Nazioni Unite e l’Unione europea.
Affermato il principio secondo cui «l’obiettivo della traduzione giuridica in un contesto plurilingue è quello di ottenere, non solo l’equivalenza dei testi, ma altresì l’equivalenza degli effetti giuridici» (130), le autrici passano in rassegna diversi metodi, dalla traduzione alla coredazione, alla redazione in partita doppia, alla redazione parallela (peraltro utilizzata nel Cantone di Berna, accanto alla redazione bilingue), alla redazione alternata, alla redazione congiunta. Ogni metodo ha i suoi pregi e difetti, ma non si insisterà mai abbastanza sull’esigenza di riconoscere pari autorità ai responsabili delle differenti versioni linguistiche: questo requisito procedurale essenziale per ottenere testi veramente equipollenti è segnatamente disatteso soprattutto nella traduzione, dove si crea ancora troppo sovente una «situazione di predominio del redattore rispetto al traduttore nell’elaborazione del testo» (130).
Ampio spazio è dedicato al plurilinguismo nelle organizzazioni internazionali e nell’Unione europea e ai molteplici metodi di lavoro legati alla produzione e all’esame istituzionale dei testi legislativi. Risulta intrigante un metodo di traduzione applicato in seno all’Unione europea per far fronte al moltiplicarsi delle lingue ufficiali, il sistema delle lingue ponte (o pivot o relais), secondo cui «non si traduce più da e verso tutte le altre lingue, ma si traduce dapprima in una lingua ponte, per poi tradurre da questa nelle altre lingue» (170). Chi ha dimestichezza con la traduzione, di qualsiasi tipo e in qualsiasi ambito, non può che condividere quanto affermano le autrici a questo proposito: «è evidente come il sistema delle lingue ponte accresca esponenzialmente i rischi insiti nella traduzione: un errore o un’ambiguità nella traduzione nella lingua ponte si rifletterà necessariamente nella ritraduzione verso le altre lingue» (171). Ciò che lascia sgomenti è la sistematicità del metodo, anche se lo stesso può forse costituire il male minore di fronte all’immane lavoro di una traduzione da e verso tutte le lingue ufficiali dell’Unione, attualmente 24 per oltre 552 combinazioni linguistiche (11).
In questo capitolo è pure trattato il ruolo dell’inglese come lingua veicolare in seno alle istituzioni dell’Unione europea. Dal fatto che oggi l’inglese è utilizzato per armonizzare il diritto europeo deriva «un processo di ibridazione della lingua inglese, che non traspone più i concetti di common law, e nemmeno quelli di un altro ordinamento specifico, storicamente dato, ma piuttosto quelli di un ordinamento in fieri, quello europeo, che risente moltissimo di diversi retroterra culturali e giuridici. La norma giuridica europea si forgia comunque in inglese, ma viene pensata in tedesco, o in polacco, o in francese» (192). «Il problema», concludono le autrici, «non si pone più dunque tra una lingua e un’altra, ma tra le 23 lingue ufficiali e una lingua inglese, per certi versi reinventata, proprio per fungere da tramite» (193).
Il quinto e ultimo capitolo, intitolato Problematiche traduttive in materia contrattuale, rappresenta una dettagliata analisi contrastiva di istituti giuridici presenti nel diritto contrattuale internazionale. Anche qui l’inglese la fa da padrone, ma «sotto il profilo terminologico si deve sottolineare che in genere questi testi sono redatti in lingua inglese e poi tradotti nelle altre lingue. Tuttavia l’inglese ivi utilizzato di norma non è l’inglese dei paesi di common law, ma piuttosto quell’inglese ibrido cui si è fatto riferimento» (198).
Il volume, che si chiude con una ricca bibliografia, è costellato di numerosi esempi molto eloquenti, intesi a evidenziare la portata dei problemi di traduzione giuridica tra due o più lingue. Per la maggior parte gli esempi provengono dall’inglese, ma non mancano termini giuridici di altre lingue, in particolare tedesco, francese e italiano3. Grazie al suo approccio tra lo scientifico e il didattico, coadiuvato da un’articolazione appropriata e una scrittura chiara, il presente lavoro costituisce un utilissimo strumento di studio, consultazione e documentazione per giuristi, linguisti, traduttori e giurilinguisti.
Giovanni Bruno, Cancelleria federale, Servizi linguistici centrali, Divisione italiana, Bellinzona, e-mail: giovanni.bruno@bk.admin.ch.
- 1 Valentina Jacometti e Barbara Pozzo sono, rispettivamente, professore associato e professore ordinario di diritto comparato all’Università degli Studi dell’Insubria.
- 2 Le autrici fanno ripetutamente riferimento a comparatisti autorevoli, in particolare ai loro maestri Antonio Gambaro e Rodolfo Sacco, ai quali è peraltro dedicato il volume.
- 3 Sarebbe senz’altro stato utile, proprio per la presenza importante di concetti giuridici esemplificati in più lingue, allegare un indice analitico (plurilingue).