Contributi scientifici

Un solo diritto, più lingue: il multilinguismo interpretativo elvetico

Roy Garré
Roy Garré

Citazione: Roy Garré, Un solo diritto, più lingue: il multilinguismo interpretativo elvetico, LeGes 30 (2019) 3

L’esistenza di più versioni linguistiche di un testo legislativo è una sfida metodologica molto stimolante per il giudice svizzero. A questo proposito esiste una consolidata tradizione giurisprudenziale la cui applicazione presuppone comunque il mantenimento di conoscenze perlomeno ricettive di tutte le lingue ufficiali da parte dei giuristi svizzeri, di cui purtroppo la scuola dell’obbligo non sembra tenere conto in tutti i Cantoni della Confederazione. L’appiattimento sull’inglese non è una soluzione perché quest’ultima non è certo una lingua ufficiale (e nemmeno nazionale) per cui dal punto di vista ermeneutico non offre alcun supporto per una corretta applicazione della volontà del legislatore, così come viene espressa nelle lingue ufficiali.


1. Un lontano esempio per cominciare

1.1. La trascuranza degli obblighi di mantenimento

[1]

In base all’articolo 217 capoverso 1 del Codice penale (CP; RS 311.0), nella versione in vigore dal 1° gennaio 1990 (RU 1989 2449; FF 1985 II 901), chiunque non presta gli alimenti o i sussidi che gli sono imposti dal diritto di famiglia, benché abbia o possa avere i mezzi per farlo, è punito, a querela di parte, con una pena detentiva sino a tre anni o con una pena pecuniaria. Già in uno dei primi commentari del Codice penale svizzero si sottolineava la notevole importanza di questa norma (v. Logoz 1956, 411), attualmente applicata in media 667 volte ogni anno, il che equivale dagli anni Sessanta ad oggi a quasi dieci sentenze ogni 100 000 abitanti (v. Bosshard 2019, 4034). Fra gli obblighi di famiglia oggetto di questa fattispecie vi sono naturalmente quelli che nascono dai rapporti coniugali, risp. dal divorzio. Stranamente, però, sia nella versione tedesca che in quella francese del Codice penale così come era entrato in vigore nel 1942, l’articolo in questione faceva riferimento soltanto agli obblighi nei confronti dei «congiunti» («Angehörige»; «proches»), escludendo in tal senso gli obblighi derivanti da divorzio, visto che il coniuge divorziato non ricadeva, né ancora oggi ricade, nella relativa definizione di cui all’articolo 110 CP. Diverso invece il testo italiano che parlava genericamente di alimenti o sussidi «imposti dal diritto di famiglia» e risultava da subito applicabile anche alle fattispecie di divorzio. Per tanto, come ebbe già occasione di scrivere a questo proposito Augusto Bolla, in un articolo apparso negli anni Cinquanta del secolo scorso, «in virtù del testo tedesco e del testo francese, non avrebbe potuto essere penalmente perseguito chi non avesse versato gli alimenti alla moglie divorziata» (1955, 66), il che ovviamente sarebbe stato e sarebbe tuttora scioccante. Di conseguenza la disposizione fu presto sottoposta ad una modifica, approvata dal Parlamento il 5 ottobre 1950, che uniformò la lettera della legge, specificando in tutte e tre le versioni linguistiche che viene punito in base all’articolo 217 CP chi non versa quanto dovuto «a favore dei suoi parenti o del coniuge divorziato» (v. Logoz 1956, 411). In realtà la specificazione era del tutto superflua ed è non a caso scomparsa dall’attuale versione che parla esclusivamente di obblighi «imposti dal diritto di famiglia», permettendo tra l’altro di includere senza discriminazioni anche le unioni registrate (v. art. 13 e 34 della legge sull’unione domestica registrata, LUD; RS 211.231). Di particolare interesse, nell’ottica del presente contributo, non è però l’evoluzione legislativa, indubbiamente celere, che ha portato a colmare la suddetta lacuna, quanto piuttosto l’approccio del Tribunale federale nel periodo in cui le versioni divergevano. Due erano in sostanza le possibilità offerte: una lettura rigorosamente rispettosa del principio «nulla poena sine lege certa», che avrebbe tuttavia rischiato di provocare una sorta di interpretazione regionale della legge, per cui, paradossalmente soltanto in Ticino e nel Grigioni italiano l’articolo 217 CP avrebbe protetto anche il coniuge divorziato, contravvenendo al principio dell’unificazione del diritto penale federale e violando l’uguaglianza di trattamento ex articolo 4 vCost.; oppure un’interpretazione teleologica, basata sul principio dell’equivalenza formale di tutti e tre i testi in questione, alla ricerca del testo che meglio riproducesse la volontà del legislatore. Quest’ultima fu la via seguita dal Tribunale federale (v. DTF 69 IV 178; 71 IV 38), con un’argomentazione molto stringente, anzitutto basata sui materiali legislativi, poi integrati in una prospettiva sistematica e teleologica più ampia (v. già Clerc 1942, 385–386), richiamando i doveri familiari così come emergono nel Codice civile e come non potevano che essere compresi anche dal comune cittadino, poco importa se germanofono, francofono, italofono o romanciofono, e quindi senza erigere la presunzione che il cittadino svizzero, per conoscere la propria legge, debba conoscere la legge in tutte le lingue nazionali (Bolla 1955, 67). Non si può comunque nascondere che senza l’assist offerto dal testo in italiano il Tribunale federale avrebbe avuto maggiori difficoltà in questa interpretazione estensiva dell’articolo 217 CP (già comunque seguita senza richiamo al testo italiano dalla Corte di cassazione penale del Canton Vaud in una sentenza del 1942; v. SJZ 39 pag. 24 dove il richiamo a detto testo è soltanto in una nota aggiuntiva del corrispondente della stessa SJZ), perché è inutile girarci attorno: di interpretazione estensiva «contra verba legis», per il testo tedesco e francese, si trattava senz’altro, per cui un conflitto con il principio di legalità di cui all’articolo 1 CP esisteva. Del resto per arrivare a questa soluzione il Tribunale federale ha dovuto espressamente abbandonare una precedente giurisprudenza, certo risalente ad un periodo in cui il diritto penale non era ancora unificato, e relativa quindi a quelle poche fattispecie che soggiacevano allora alla giurisdizione penale federale (v. Garré 2016, 3–20), ma non per questo priva di pertinenza anche nel caso di specie. Nelle DTF 48 I 441 e 51 I 159 (esplicitamente citate in DTF 69 IV 178 consid. 1), risalenti agli anni Venti, la Corte di cassazione del Tribunale federale aveva infatti sancito che in caso di divergenza nelle differenti versioni linguistiche del testo delle leggi penali federali ci si doveva attenere alla versione più favorevole all’imputato «parce que, d’une part, un citoyen ne saurait être puni pour un acte que la loi rédigée dans sa langue maternelle ne lui fait pas apparaître comme défendu et parce que, d’autre part, la loi doit être appliquée d’une manière uniforme» (v. DTF 51 I 159 consid. 1 con richiamo alle DTF 33 I 733 e 47 III 5). Dopo avere così riassunto la precedente giurisprudenza, il Tribunale federale, nella DTF 69 IV 174, spiegò tuttavia che «cette jurisprudence ne peut pas être maintenue» perché «les textes rédigés dans les trois langues officielles ont une valeur égale dans toute la Suisse sans distinction», motivo per cui «si ces textes sont divergents, le sens véritable de la loi doit être recherché selon les méthodes usuelles de l’interprétation, en droit pénal aussi bien qu’en d’autres domaines du droit» (consid. 1 pag. 180). Così facendo il Tribunale federale ha completato un approccio metodologico destinato ad una grande fortuna, visto che è quello ancora applicato oggi in tutti i campi del diritto federale. Ciò non toglie che nel caso concreto si trattasse di una classica estensione in malam partem del campo di applicazione del reato, giustificata in termini di politica criminale ma problematica dal punto di vista del principio di legalità. Non si trattava, infatti, di colmare semplicemente una lacuna legislativa modo legislatoris come sarebbe tenuto a fare un giudice civile in virtù dell’articolo 1 capoverso 2 del Codice civile (CC; RS 210), ma di incidere direttamente nel tessuto normativo amplificando la portata di una fattispecie penale. In questi casi, come ancora recentemente sottolineato dal Tribunale penale federale, già soltanto per delle ragioni di separazione funzionale fra potere legislativo e potere giudiziario il giudice deve dar prova di grande cautela (TPF 2014 1 consid. 9.1 e rinvii).

1.2. Il fascino ed i presupposti del multilinguismo interpretativo

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Al di là delle tensioni che si possono creare con il principio di legalità è innegabile che il multilinguismo permette un approccio ermeneutico molto affascinante (v. già Pedrazzini 1952), che negli Stati a tradizione monolingue (come del resto nei Cantoni monolingui per quanto riguarda il diritto cantonale) non può essere coltivato (v. per quanto riguarda il diritto europeo Burr 2009, 758–760; Christensen/Müller 2004; Berteloot 2004; Burr/Gallas 2004). È una sorta di ribellione per rapporto alla leggenda della Torre di Babele (Genesi, 11, 1–9): quella che viene in genere interpretata come una punizione di Dio per la superbia degli esseri umani si trasforma, nelle mani dei giuristi svizzeri, in un’occasione preziosa per fare al meglio il nostro lavoro, sfruttando la ricchezza dei linguaggi e del dialogo interculturale. Questo ovviamente presuppone lo studio e la conoscenza perlomeno a livello di competenze ricettive di tutte le lingue ufficiali e non si può certo dire che tutti i Cantoni svizzeri siano consapevoli dell’importanza di promuovere l’insegnamento delle lingue nazionali oltre a quello dell’inglese (v. più ampiamente Ribeaud 2010 e Pini 2017). Ma questo presuppone anche da parte dei giuristi svizzeri sufficiente curiosità e freschezza mentale per aprire ogni tanto anche le pagine (poco importa se cartacee o digitali) dei codici e delle leggi nelle altre lingue nazionali, tanto più che il sito della Confederazione offre adesso possibilità di confronto diretto in maniera tecnicamente molto semplice e non mancano case editrici che offrono addirittura strumenti di traduzione automatica degli articoli, che se non raggiungono ovviamente la qualità di traduzioni professionali sono perlomeno un primo ausilio per capire i contenuti essenziali di un contributo, stimolando, si spera, la curiosità del lettore ed il piacere di avventurarsi nei territori di altre lingue e altre culture. Costa fatica, ma ne vale la pena e per una «Willensnation» come la Svizzera (v. Villiger 2009) penso che sia addirittura un’aspettativa civica per rafforzare i legami confederali e quindi una forma di sincero patriottismo, di valore ben superiore a certi patriottismi di facciata intrisi di quel così diffuso «sovranismo» che è un modo nuovo ma non meno insidioso per propagare «nazionalismo» (perlomeno per quanto riguarda il «sovranismo identitario» di cui parla Alessandro Somma, 2018, in opposizione al «sovranismo democratico»). Da qui l’importanza delle molteplici attività della Delegata federale al plurilinguismo, con iniziative anche molto originali come quella recente della settimana di immersione nell’italianità per gli apprendisti della Confederazione, tenutasi dal 23 al 27 settembre 2019 in Ticino (https://www4.ti.ch/sala-stampa/comunicati-stampa/cartella-stampa/?idCartella=186071). Del resto, come scrive Federico Faloppa, il linguaggio è «uno straordinario, complesso, duttile strumento di libertà» (2019, 27), e se in questo spazio di libertà trova cittadinanza anche il dialogo interculturale il beneficio non può che esserne moltiplicato.

2. La giurisprudenza del Tribunale federale in ambito di interpretazione e i suoi risvolti linguistici

2.1. L’interpretazione in generale

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Prima di illustrare la giurisprudenza del Tribunale federale nel caso di divergenze fra le versioni linguistiche occorre richiamare i principi ermeneutici di base seguiti dalla nostra massima Corte. Notoriamente il Tribunale federale applica il cosiddetto pluralismo metodologico (v. Keshelava 2012). Esso parte in primo luogo dalla lettera della legge (DTF 145 IV 17 consid. 1.2, 146 consid. 2.3; sentenza del Tribunale federale 6B_138/2019 del 6 agosto 2019 consid. 4.4.1). Quando il testo di legge è chiaro l’autorità non può distanziarsene se non vi sono motivi seri per ritenere che questo testo non corrisponda al vero senso della disposizione e porti a risultati che il legislatore non può avere voluto e che urtano il sentimento della giustizia o il principio dell’uguaglianza di trattamento. Questi motivi possono risultare dai lavori preparatori, dalle basi e dagli scopi della norma e dal suo rapporto con altre disposizioni (DTF 144 IV 240 consid. 2.3.2, 97 consid. 3.1.1; 135 IV 113 consid. 2.4.2; 134 I 184 consid. 5.1; 131 I 394 consid. 3.2). Diverso invece il discorso quando la lettera della legge non è chiara e sono possibili differenti interpretazioni. In questo caso non si tratta di discostarsi dal testo chiaro della legge e dal brocardo «in claris non fit interpretatio», ma si tratta di capire, mediante i classici strumenti dell’interpretazione, qual è il vero senso della legge, la quale va inserita nel suo contesto, alla ricerca di eventuali relazioni con altre norme, chiarendo lo scopo da essa perseguito, il suo spirito nonché la volontà del legislatore come traspare dai lavori preparatori. Riassumendo, il Tribunale federale analizza la genesi, la sistematica e lo scopo della legge, senza attribuire tuttavia a nessuno di questi elementi una maggiore importanza gerarchica, in nome appunto di un cosiddetto pluralismo metodologico di tipo pragmatico (v. DTF 145 IV 17 consid. 1.2; 144 IV 168 consid. 1.2; 144 V 138 consid. 6.3; 135 IV 113 consid. 2.4.7).

2.1.1. L’interpretazione in caso di testi divergenti

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Un aspetto caratteristico dell’approccio del Tribunale federale in caso di testi divergenti è l’assenza di preconcetti a favore di singole lingue ufficiali. Troviamo così tutte le combinazioni possibili: dalla prevalenza, come abbiamo visto sopra, del testo italiano sugli altri (per cui v. Burr 2000), alla prevalenza del testo francese e italiano su quello tedesco (v. ad es. DTF 120 V 429 consid. 2), dalla prevalenza del tedesco sul francese senza menzione di quello italiano (v. DTF 117 V 287 consid. 3b) alla prevalenza del testo tedesco ed italiano su quello francese (v. ad es. DTF 135 IV 113 consid. 2.4.3) ecc. Per altro il Tribunale federale analizza non di rado le tre versioni anche semplicemente per constatare che dicono la stessa cosa (v. ad es. DTF 145 IV 146 consid. 2.3.1 e 2.4.1; 116 IV 67 consid. 2; sentenza del Tribunale federale 6B_434/2019 del 5 luglio 2019 consid. 1.2), ed è ovviamente la regola, ci mancherebbe altro.

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Come abbiamo visto il Tribunale federale distingue due situazioni di base a dipendenza della chiarezza o meno del testo di legge. La chiarezza si riferisce però obbligatoriamente a tutte le versioni ufficiali, per cui la lettera della legge può essere chiara in una lingua ma non in un’altra e anche qui tutte le varianti sono immaginabili, ma forse non è necessario insistere troppo su questa dicotomia, debitrice del predetto brocardo «in claris non fit interpretatio». In realtà tutti i testi, per essere compresi, presuppongono un’interpretazione: semplicemente vi sono dei testi in cui la lettera della legge è talmente chiara e corrispondente alla ratio legis che è inutile perdere tempo in operazioni ermeneutiche complesse; ma fatto sta che già per arrivare a questa consapevolezza occorre fare una, certo più semplice, operazione interpretativa (v. Caroni 1996, 84–90). In questo l’articolo 1 capoverso 1 CC è fuorviante quando in tedesco afferma: «Das Gesetz findet auf alle Rechtsfragen Anwendung, für die es nach Wortlaut oder Auslegung eine Bestimmung enthält». In realtà è più corretto quanto si legge nelle versioni latine: «La legge si applica a tutte le questioni giuridiche alle quali può riferirsi la lettera od il senso di una disposizione» («la lettre ou l’esprit» in francese), nella misura in cui anche per comprendere la lettera della legge occorre interpretare (sempre stimolante in proposito Eco 1990).

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Secondo il Tribunale federale quando una disposizione presenta una discrepanza fra le versioni nelle tre lingue ufficiali, risulta determinante il testo che secondo il metodo usuale d’interpretazione rende più esattamente il senso della norma e può essere considerato come giusto (DTF 120 V 429 consid. 2; 117 V 287). Capita però non di rado che il Tribunale federale giunga ad una soluzione in base ad un’interpretazione monolingue, senza fare uso delle altre lingue anche se in realtà il richiamo multilingue sarebbe utile. È il caso per l’interpretazione dell’articolo 417 del Codice di procedura penale (CPP; RS 312.0). Nella sentenza 1B_534/2018 del 4 aprile 2019, pubblicata in Praxis 2019 Nr. 72, il Tribunale federale ha considerato che anche il pubblico ministero possa essere tenuto ad assumere l’onere delle spese in virtù di detto articolo, nonostante nella versione tedesca si parli di «verfahrensbeteiligte Person», formulazione poco adatta in riferimento ad un’autorità. Concretamente ha così ammesso l’accollamento a carico del pubblico ministero di ripetibili a favore di un’accusatrice privata di cui era stato accolto il ricorso per ritardata giustizia. Stranamente il Tribunale federale non richiama le versioni latine di questo articolo, che invece sarebbero state d’aiuto all’interpretazione in questione visto che parlano di «participants à la procédure» risp. «partecipante al procedimento», termine applicabile anche al pubblico ministero vista la terminologia usata nel Titolo terzo del Codice, dove si parla di «parti e altri partecipanti al procedimento» (Parteien und andere Verfahrensbeteiligte; parties et autres participants à la procedure). Sennonché proprio la posizione del pubblico ministero è ambivalente nella procedura penale, visto che è «parte» soltanto nella procedura dibattimentale e in quella di ricorso (v. art. 104 cpv. 1 lett. c CPP), mentre in quella preliminare è titolare della direzione del procedimento (v. art. 61 lett. a CPP). Questa non è comunque la sola divergenza legislativa legata agli attori del procedimento penale e quindi di una delle normative più recenti ed importanti dell’intero ordinamento giuridico. Così, già pochi mesi dopo l’entrata in vigore del CPP, la Corte dei reclami penali del Tribunale penale federale ha avuto occasione di evidenziare una divergenza fra la versione tedesca ed italiana, da un lato, e quella francese, dall’altro, dell’articolo 393 capoverso 1 lettera b CPP, laddove si esclude l’impugnabilità delle «decisioni ordinatorie» (verfahrensleitende Entscheide) del tribunale di primo grado, le quali non sono equivalenti alle decisioni «de la direction de la procédure» di cui parla il testo francese (v. TPF 2011 107). L’interpretazione si è orientata alla versione tedesca ed italiana, le quali meglio esprimono l’oggettività del concetto come chiaramente emerge dai materiali legislativi. Quello che conta, secondo la dottrina e la giurisprudenza, non è il soggetto da cui emana questo tipo di decisione (la direzione del procedimento oppure il tribunale in quanto tale), ma la natura oggettiva della decisione e quindi la sua mera componente «ordinatoria» per rapporto alla procedura in quanto tale. Del resto proprio quello della «direzione del procedimento» è uno dei termini che sono stati oggetto di particolare approfondimento giuslinguistico nel grande cantiere legislativo che ha portato al varo del CPP, come bene possiamo leggere in Egger/Grandi (2008, 50–51).

2.1.2. I presupposti costituzionali di questa metodologia interpretativa

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Le lingue nazionali del nostro Paese sono notoriamente il tedesco, il francese, l’italiano e il romancio (art. 4 Cost.). Il tedesco, il francese e l’italiano sono altresì le lingue ufficiali della Confederazione (art. 70 cpv. 1 primo periodo Cost.), statuto vantato dal romancio soltanto nei rapporti con le persone di lingua romancia (v. art. 70 cpv. 1 seconda frase Cost.). Questa distinzione fra lingue nazionali e lingue ufficiali ha come prima conseguenza che soltanto il tedesco, il francese e l’italiano vanno tenuti in considerazione nell’interpretazione delle leggi federali, a maggior ragione per il fatto che solo una parte di esse è tradotta in romancio. Analogo discorso per la traduzione ufficiosa in inglese che si trova in internet sul portale ufficiale della Confederazione. In base all’articolo 13a capoverso 1 lettera d della legge federale sulle raccolte del diritto federale e sul Foglio federale (Legge sulle pubblicazioni ufficiali, LPubb; RS 170.512), oltre ai testi legislativi nelle tre lingue ufficiali, sulla piattaforma di pubblicazione trovano anche spazio loro traduzioni, in particolare in romancio e in inglese. I criteri per la pubblicazione di queste traduzioni sono definiti all’articolo 14 capoversi 5 e 6 LPubb: per quanto riguarda il romancio mediante un rinvio all’articolo 11 della legge sulle lingue, di cui meglio nel seguente capitolo; per quanto riguarda l’inglese, ed eventuali altre lingue, in base ad una loro «particolare importanza» o nel caso di «interesse internazionale» (art. 14 cpv. 6 LPubb). In questo senso né il romancio, né l’inglese, né qualsiasi altra lingua usata sul portale ufficiale della Confederazione può essere usata nelle operazioni ermeneutiche qui descritte. Per il romancio dispiace un po’, perché è pur sempre una lingua nazionale e se esiste una traduzione in tale lingua (messa a disposizione anche in virtù dell’art. 70 cpv. 1 secondo periodo Cost.) ci si può chiedere perché non possa essere presa in considerazione; per l’inglese e qualsiasi altra lingua invece è la naturale conseguenza del fatto che non si tratti né di lingue nazionali né di lingue ufficiali, per cui sarebbe scioccante servirsene per meglio interpretare leggi concepite, dibattute, votate in tedesco, francese e italiano.

2.2. Un excursus sulla legge federale sulle lingue

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La legge federale sulle lingue nazionali e la comprensione tra le comunità linguistiche (Legge sulle lingue, LLing; RS 441.1) intende rafforzare il quadrilinguismo quale elemento essenziale della Svizzera, consolidare la coesione interna del Paese, promuovere il plurilinguismo individuale ed istituzionale e salvaguardare e promuovere il romancio e l’italiano in quanto lingue nazionali (art. 2). Agli articoli 10 e 11 di questa normativa vi sono disposizioni sulle pubblicazioni in tedesco, francese, italiano e romancio che ricalcano nella sostanza quelle contenute nella LPubb (v. più ampiamente Savoldelli 2008 e Borghi/Previtali 2018, 722–740). L’ottica però è diversa nel senso che nella legge sulle lingue prevalgono finalità di politica culturale e di protezione delle minoranze linguistiche mentre in quella sulle pubblicazioni si tratta essenzialmente di garantire l’accesso alle leggi federali e alle altre pubblicazioni ufficiali della Confederazione, in modo tale che la cittadina ed il cittadino siano dovutamente informati. Non si tratta quindi di promuovere il plurilinguismo ma la conoscenza del diritto in una lingua ufficiale della Confederazione. Ciò nonostante è indubbio che fra le due normative vi sia uno stretto legame. Lo si nota ad esempio se si considera la giurisprudenza della Corte dei reclami penali del Tribunale penale federale in ambito di lingua della procedura nella giurisdizione penale federale. Nelle sentenze TPF 2014 161 e TPF 2015 93 è stato infatti affermato che la legge federale sulle lingue si applica sia nella fase predibattimentale che dibattimentale di questo tipo di procedimenti. Del resto l’articolo 4 capoverso 1 lettera d LLing nomina esplicitamente i tribunali della Confederazione fra le autorità che devono applicare questa legge, per cui è indubbio che il legislatore non volesse fare eccezioni per rapporto agli altri poteri dello Stato. La conseguenza pratica più importante è che le autorità giudiziarie federali devono accettare scritti redatti in una lingua ufficiale (v. art. 6 cpv. 1 LLing), a prescindere quindi dalla lingua della procedura in quanto tale, la quale viene determinata dal Ministero pubblico della Confederazione all’inizio del procedimento in base ai criteri definiti all’articolo 3 della legge sull’organizzazione delle autorità penali (LOAP; RS 173.71) (v. anche TPF 2018 133 consid. 3). Questo vale però soltanto per gli scritti, partendo dall’idea che da parte di magistrati e avvocati attivi in Svizzera (e per di più nel foro federale) ci si attende che conoscano le lingue ufficiali perlomeno a livello di competenza ricettiva (v. sentenze del Tribunale federale 1A.71/2005 dell’11 maggio 2005 consid. 4.1 e 1A.87/2004 del 3 giugno 2004 consid. 1; TPF 2015 93 consid. 5.2 con ulteriori rinvii), mentre per quanto concerne il dibattimento orale, con la sua particolare dinamica, si parte dall’idea che sia comunque necessario un interprete (v. TPF 2015 147 consid. 1.3). Con questa pragmatica soluzione si tengono in dovuta considerazione le difficoltà che possono derivare nell’immediatezza processuale, senza però abbandonare i diritti e principii derivanti dall’articolo 6 capoverso 1 LLing. L’articolo 6 capoverso 6 prevede del resto una riserva a favore delle disposizioni concernenti l’amministrazione della giustizia federale, per cui la distinzione fra scritto e orale rappresenta un ragionevole compromesso fra le esigenze del processo penale e quelle della legge sulle lingue.

3. Conclusione

3.1. Un solo diritto in più lingue

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In un recente Rapporto di valutazione adottato dal GRECO (Gruppo di Stati contro la corruzione) nel 2016 è stato fatto notare come in Svizzera «i giudici sono ancora visti come rappresentanti del popolo nonché delle lingue, delle culture e delle forze politiche presenti» nel Paese (2016, 29). Il multilinguismo interpretativo di cui nel presente contributo va inserito in questo più ampio contesto: non è dunque una mera questione tecnica, ma assume connotati politici ed emozionali che non possono essere sottovalutati. La stessa equa rappresentanza delle lingue all’interno degli organismi giudiziari federali trova espressione nella legge. In base all’articolo 18 capoverso 2 della legge sul Tribunale federale (LTF; RS 173.110) per costituire le corti del Tribunale federale si tiene adeguatamente conto delle conoscenze specifiche dei giudici e delle lingue ufficiali, come del resto prevedeva il vecchio articolo 188 capoverso 4 Cost. (giustamente critico sull’abbandono di questa disposizione costituzionale Catenazzi 2005, 106–107). Un’analoga disposizione si trova anche all’articolo 19 capoverso 2 della legge sul Tribunale amministrativo federale (LTAF; RS 173.32). L’articolo 55 capoverso 2 LOAP afferma che per la costituzione delle corti del Tribunale penale federale si deve tenere adeguatamente conto delle lingue ufficiali. Infine l’articolo 9 capoverso 3 della legge sul Tribunale federale dei brevetti (LTFB; RS 173.41) prevede che all’atto dell’elezione dei giudici occorre garantire un’adeguata rappresentanza degli ambiti tecnici e delle lingue ufficiali. Da tutte queste normative riguardanti i vari tribunali della Confederazione ex articoli 188 e 191a Cost. si nota il particolare riguardo del legislatore federale per il multilinguismo all’interno delle istituzioni stesse. Personalmente apprezzo molto ad esempio che nel plenum del Tribunale penale federale ognuno parli la propria lingua e che a nessuno sia mai venuto in mente di parlare in inglese per capirsi o addirittura di ricorrere ad un interprete. Se proprio non si capisce qualcosa, basta chiedere, e qualsiasi collega è disponibile a ripetere il tutto in un’altra lingua ufficiale. È un po’ macchinoso ma è un esempio di federalismo vissuto, che ritengo molto prezioso ed arricchente per il dialogo interculturale. Il fatto che il Tribunale penale federale sia nella Svizzera italiana valorizza inoltre l’italiano in maniera speciale, visto che si parte dall’idea che, usciti dal palazzo di giustizia, vicino al centro cittadino, i colleghi alloglotti si arrangino a parlare in italiano anche nella vita di tutti i giorni, e del resto non mancano nemmeno i corsi all’interno del Tribunale per approfondire le conoscenze linguistiche essenziali nel nostro lavoro quotidiano. È una questione di buona volontà, pazienza e sana curiosità.

3.2. Fra consuetudine e consuetudini

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Recentemente il Tribunale federale ha adottato un documento che contiene le consuetudini in uso presso i giudici del Tribunale stesso. Il testo è in tre lingue ed è stato approvato dalla Corte plenaria nelle sedute del 12 novembre 2018 e del 13 giugno 2019. Per il presente articolo l’aspetto più interessante è legato al titolo stesso di questo documento, consultabile nel sito internet del Tribunale federale. Nella versione tedesca si parla di «Gepflogenheiten der Richter und Richterinnen am Bundesgericht». In quella francese di «usages au sein du collège des juges au Tribunal fédéral» ed in italiano appunto di «consuetudini». Nel preambolo i giudici spiegano che «con il presente documento […] mettono per iscritto le consuetudini a cui si conformano», subito però precisando che «queste consuetudini non costituiscono un vincolo normativo». La precisazione è ovviamente importante in tutte e tre le lingue, ma lo è in modo particolare nelle versioni latine, visto che sia il termine di «consuetudine», seppure al singolare, sia quello di «usages» si trovano anche nel titolo preliminare del Codice civile svizzero e quindi in uno dei capisaldi metodologici dell’intero ordinamento giuridico del nostro Paese. Se il termine «Gepflogenheiten» non presenta in questo senso particolari rischi di malintesi, altrettanto non si può dire per i termini in francese e in italiano. In base all’articolo 5 capoverso 2 CC «quando la legge si riferisce all’uso od all’uso locale, il diritto cantonale finora esistente vale come espressione dei medesimi, in quanto non sia provato un uso che vi deroghi». Il termine «uso» («usage»; «Übung oder Ortsgebrauch») ha quindi potenzialmente un potere giuridicamente vincolante e quindi è comprensibile che i giudici federali abbiano specificato che questo non vale per le «consuetudini» in questione. Ma ciò vale a maggior ragione per il termine in italiano visto che in virtù dell’articolo 1 capoverso 2 CC «nei casi non previsti dalla legge il giudice decide secondo la consuetudine e, in difetto di questa, secondo la regola che adotterebbe come legislatore». La consuetudine è dunque addirittura la seconda fonte del diritto del Codice civile svizzero e quindi il rischio di malintesi è in italiano ancora più forte, ricollegandosi terminologicamente alla tradizione dello «ius commune» e quindi al termine latino di «consuetudo», sulla cui valenza normativa non può esserci alcun dubbio (v. Garré 2003). In tedesco e francese il rischio di malintesi è minore perché l’articolo 1 capoverso 2 CC parla di «Gewohnheitsrecht» e di «droit coutumier» per cui è chiaro che queste espressioni non possono essere confuse con le predette «Gepflogenheiten» della Corte plenaria del Tribunale federale. Questo rincorrersi di espressioni polisemiche nelle varie lingue ufficiali è emblematico e trovo molto suggestivo che non sia riducibile a marginali curiosità, visto che la nozione di fonte del diritto ex articolo 1 CC è dirimente nell’applicazione del diritto nell’intero ordinamento del nostro Paese (v. già Meier-Hayoz 1962, 100–108). Il fatto che tra l’emanazione del Codice civile del 10 dicembre 1907 e questo documento della nostra massima Corte siano passati più di 110 anni rende il tutto ancora più affascinante e dimostra come la cura delle giuste parole, in un contesto multilingue come quello svizzero, abbia un valore ancora più alto che in un contesto monolingue. La redazione in italiano del Codice civile di Eugen Huber fu del resto affidata a tre giuristi del calibro di Brenno Bertoni, Stefano Gabuzzi e Curzio Curti (v. Catenazzi 2005, 108). Gianrico Carofiglio (2015) parla dell’importanza di dire le cose «con parole precise»: questa esigenza è ancora più forte in Svizzera dove è necessaria una precisione delle «parole del diritto» (v. più ampiamente Mortara Garavelli 2001 e Petralli 2005) a più strati, sia per rapporto all’orizzontalità dell’ordinamento in quanto tale sia per rapporto alla verticalità che si viene a creare se si considera questo stesso ordinamento nella ricchezza delle sue varietà linguistiche. Le parole (ovviamente non solo del diritto) hanno infatti una loro storia (interessanti esempi in Lurati 2005 e 1989), in primis una storia che ha a che fare con il loro territorio di origine, ma anche una storia di intrecci di culture (v. ad es. Dorren 2018) che nel caso della Svizzera costituisce l’essenza stessa del suo essere «Willensnation».


Roy Garré, PD Dr. iur., Tribunale penale federale, roy.garre@bstger.ch.

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