Una prassi istituzionale pluriennale, poggiante peraltro su solide basi giuridiche, ma anche saggi eruditi ad opera di acuti studiosi e letterati ci hanno abituati a considerare la traduzione come atto etico per eccellenza svolto in nome del rispetto della molteplicità delle lingue e della promozione della diversità culturale. In questa stessa ottica, del resto, chi scrive aveva proposto tempo fa alcuni lineamenti di quello che aveva definito il paradigma della traduzione istituzionale, sorta di insieme di impegni teorici condivisi da tutti coloro che si occupano di questa attività, non a caso riuniti ecumenicamente da Yves Bonnefoy (2000) nel sodalizio ideale della «communauté des traducteurs». Fra i tratti salienti, tutti assai positivi, di tale paradigma avevamo evidenziato ad esempio la valenza della traduzione come atto di civiltà, come aumento di informazione o, ancora, come concreto fattore di umanità (Egger 2019, 64–78). Il libro di Tiphaine Samoyault, scrittrice, critica letteraria e docente di letteratura generale e comparata presso la Sorbonne Nouvelle di Parigi, sembra ora smentire radicalmente i toni idillici di tale «discours euphorique» (21), a cominciare dal titolo che associa inequivocabilmente l’atto traduttivo alla violenza. Le virtù umanistiche della traduzione sarebbero dunque solo un’illusione?
In realtà l’autrice non intende denunciare la vera identità della traduzione né sostanzialmente capovolgere la valutazione generalmente positiva di questa felice esperienza di incontro e dialogo (195), ma piuttosto contribuire a una più completa comprensione dell’attività traduttiva ricordando le dinamiche conflittuali che la animano, sia nel suo sviluppo tecnico e linguistico interno, sia nel contesto socio-politico nel quale si svolge, dinamiche che mettono in risalto tutta la complessità e instabilità epistemologica del tradurre: «[r]éinscrire du négatif [dans le discours sur la traduction], c’est faire des antagonismes de la traduction des forces vives, des forces de veille, de vigilance, des forces de malentendus qui conduisent à ne rien considérer comme définitivement acquis» (28).
La traduzione, ci fa capire l’autrice, è innervata da antagonismi, agonismi e conflitti già solo nell’interpretazione complessiva del suo stesso significato: che cosa si deve infatti intendere per traduzione? Forse la copia esatta del testo originale come voleva Chateaubriand quando ricalcava parola per parola il testo del Paradise Lost di Milton («J’ai calqué le poème de Milton à la vitre», 72), oppure l’espressione dell’idea di fondo dell’autore del testo originale indipendentemente dalla sua formulazione iniziale o, viceversa, la riproduzione della musicalità delle parole originali in altre parole assonanti ma di tutt’altro senso come nella traduzione omofonica (nella quale ad esempio il verso di John Keats «A thing of beauty is a joy for ever» diventa «Un singe débotté est une joie pour l’hiver», 184), oppure ancora il mezzo più sottile per far dire al testo originale ciò che vuole il traduttore facendo credere di riprodurne fedelmente il dettato, o, come accaduto sovente in contesti coloniali, l’arma culturale privilegiata per assimilare e quindi cancellare le culture assoggettate? E poi, ancora, se muoversi nel mondo della traducibilità illimitata ed immediata, come sembrano promettere oggi i successi degli algoritmi operanti in dispositivi sempre più miniaturizzati, significherà poter viaggiare ovunque senza abbandonare la propria lingua e senza incontrare dunque nessun idioma altro o incomprensibile, non si raggiungerà in tal modo la violenza massima consistente nell’eliminazione pura e semplice di ogni alterità? La trasparenza dei discorsi di altre culture resa possibile dalla traduzione è anche violenza, poiché può indurre a ignorare del tutto le specificità altrui (10).
Il dissidio tuttavia non caratterizza soltanto il livello della definizione dell’atto traduttivo. Tutta la storia della traduzione e quella delle politiche di traduzione è costellata di violenze, soprusi e assassini e, come ci ricorda l’esempio tragico di Etienne Dolet o quello più recente dei traduttori di Salman Rushdie, di traduzione si può anche morire (71), sia per infedeltà o resa infelice dell’originale sia per il peccato inerente all’approccio traduttivo stesso in quanto tale. Tradurre è scomporre il testo da tradurre nei suoi elementi primari per ricomporlo nell’altra lingua, ledere dunque l’integrità dell’originale che se è sacro subisce un sacrilegio («la traduction détruit l’original», 66). Adottando tale ottica radicale, ogni testo tradotto risulta però essere vittima di un sopruso deformante, di una disarticolazione («[p]our refaire dans une autre langue ce qui a été fait dans un poème ou das un livre, il faut soigneusement détisser le texte à traduire, le démanteler, le mettre en pièces, le rendre informe, avant de lui redonner forme», 191) che il testo di arrivo mai riuscirà a sanare, salvo imporsi a sua volta come originale, riscrittura completa e nuova opera integrale, come suggerisce l’approccio traduttologico elitario di Henri Meschonnic: «Les traductions sont alors des oeuvres – une écriture – et font partie des oeuvres» (p. 43).
Tale «pouvoir délabrant de la traduction» (51) si esercita d’altra parte anche sulla lingua di arrivo, la quale nell’ospitare sintassi, parole, espressioni e tournures straniere sollecita i propri equilibri tradizionali e assume a sua volta nuove fisionomie. Non si esce indenni da un incontro traduttivo con un altro idioma, né umanamente (si ricordi la drammatica confessione del traduttore del Processo kafkiano: «da questa traduzione sono uscito come da una malattia», Levi 1995, 253), né linguisticamente, tanto è vero, ad esempio, che si è potuto recentemente parlare delle caratteristiche particolari dell’italiano delle traduzioni (Ondelli 2020). Siffatta violenza subita dalla lingua d’arrivo è però anche motore di sviluppo e innovazione, adattamento delle singole lingue all’evoluzione linguistica altrui e in parte pure incentivo di creatività, sicché «[t]outes les grandes traductions sont néologiques» (77).
Anche senza assimilare la traduzione alla deformazione, non è difficile ammettere che l’attività traduttiva è comunque dominata intrinsecamente dalla dialettica del conflitto, della controversia con un testo originale che richiede giustizia per il suo dettato. «Trouver le mot juste», «mot pour mot», «rendre le sens» (110): indipendentemente dalle strategie traduttive adottate, tutte queste espressioni iscrivono la traduzione nel paradigma dell’equità. Questa associazione, fondamentale, permette di capire dapprima in che senso profondo una traduzione «giusta» è una traduzione che rispetta l’originale, anche quando fosse intraducibile, e in un secondo tempo perché la traduzione possa in alcuni casi assumere la valenza di atto di giustizia e riparazione in ambito politico. È quanto capitato ad esempio in Sudafrica quando Nelson Mandela ha chiesto che i dibattiti della Commissione Verità e Riconciliazione fossero tradotti in tutte le undici lingue ufficiali del nuovo Stato post apartheid, il che riconduceva la lingua degli Afrikaners al rango di lingua africana tra le altre e soprattutto obbligava tutti i cittadini all’ascolto delle lingue altrui (87). Ma che la traduzione possa essere anche atto di riparazione, e anzi di restaurazione, lo dimostra inoltre l’esempio dell’opera di testimonianza di Primo Levi, una testimonianza che avvenne dapprima grazie alla traduzione dell’esperienza del Lager in Se questo è un uomo (traduzione di un universo concentrazionario che, come avevamo già sottolineato altrove, negava qualsivoglia velleità traduttiva, 94 ma cfr. anche Egger 2017), e in un secondo tempo con la ritraduzione dello stesso libro in tedesco, una Verdeutschung che assunse il valore non tanto di una traduzione ma di una «restitutio in pristinum, une retraduction, un retour à la langue dans laquelle les choses s’étaient produites et qui était la leur» (94).
Le analisi di Samoyault sono molto acute e denotano, oltre a una solida conoscenza teorica, la grande sensibilità di chi ha esperienza diretta con l’attività traduttiva. Hanno inoltre il merito di mettere in evidenza la ricca sfaccettatura e polivalenza della traduzione; proprio oggi è infatti indispensabile ricordare e mai stancarsi di ripetere che non esiste una traduzione e neppure un unico tipo di atto che possa inglobare in modo univoco la pluralità di valenze del verbo «tradurre». La traduzione è un arcipelago di molteplici – probabilmente infinite – prassi e approcci e molteplici devono restare pure le sue definizioni. D’altra parte, e anche questo va sottolineato, non sempre la traduzione è garanzia assoluta di rispetto dell’alterità, perché sotto il manto del multilinguismo può servire a mascherare – e cementare – rapporti di subordinazione linguistica.
Detto questo, le dinamiche che animano gli atti traduttivi sono certo dinamiche contrastanti, di confronto e di scontro con l’alterità, ma riunirle tutte sotto la categoria complessiva di violenza ci pare eccessivo, poiché tali conflitti – se di reali conflitti si tratta – nella maggior parte dei casi altro non sono che confronto con l’alterità, negatività in senso hegeliano, e quindi non scalfiscono la profonda eticità del tradurre. Si ha l’impressione che per sottolineare tutte le tensioni insite nella traduzione l’autrice abbia troppo occultato la dimensione etica nella quale solitamente l’atto traduttivo si dispiega. Definire «violenza» ogni scarto differenziale o lavoro dell’alterità significa fare dell’universo della traduzione un mondo pervaso di violenza e nel quale un’eventuale redenzione corrisponde in definitiva a una situazione di totale incolumità linguistica reciproca, tale da impedire qualsivoglia traduzione. Non saremmo lontani dalla posizione del filosofo Nicolás Gómez Dávila (2019, 166) secondo cui «[l]a traduzione omette ciò che più importa in un testo, che non è quello che dice il suo autore, bensì quello che dice l’idioma di costui». Posizione estrema e sicuramente seducente, ma che significherebbe la fine della traduzione o per lo meno la sua impossibilità teorica. Non dimentichiamo tuttavia che la posizione opposta, quella della trasparenza totale, altrettanto radicale ma oggi già alle porte, significherebbe pure la fine della traduzione o la sua impossibilità pratica, come presagisce l’autrice in apertura del suo libro: «[d]ans un avenir très proche, nous voyagerons seuls, chacun dans sa langue. On n’aura plus besoin d’apprendre les langues étrangères pour aller à la rencontre des autres. […] Peu de temps après la publication de ce livre-ci, des voyageurs de plus en plus nombreux arpenteront la planète pourvus d’une oreillette capable de traduire dans leur langue les propos de tous leurs interlocuteurs, quelle que soit leur langue maternelle» (7–9).
Jean-Luc Egger, Cancelleria federale, Servizi linguistici centrali, Divisione italiana, Berna, e-mail: jean-luc.egger@bk.admin.ch.
- Bonnefoy, Yves (2000): La communauté des traducteurs, Presses universitaires de Strasbourg, Strasbourg [it. a cura di Fabio Scotto, Id., La comunità dei traduttori, Sellerio editore, Palermo 2005].
- Gómez Dávila, Nicolás (2019): De iure, a c. di Luigi Garofalo, La nave di Teseo, Milano.
- Egger, Jean-Luc (2017): «Il grado zero della traduzione», in Quaderni grigionitaliani, Anno 86, 3-2017, pagg. 57–61.
- Egger, Jean-Luc (2019): A norma di (chi) legge. Peculiarità dell’italiano federale, Giuffrè Francis Lefebvre, Milano.
- Levi, Primo (1995): «Nota del traduttore», in Franz Kafka, Il processo, Einaudi, Torino 1995, pagg. 251–255.
- Ondelli, Stefano (2020): L’italiano delle traduzioni, Carocci, Roma.