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Il 1° gennaio 2016 è entrato in vigore il nuovo art. 15 cpv. 2 della legge del 18 giugno 2004 sulle pubblicazioni ufficiali (LPubb; RS 170.512). A partire da questa data la versione determinante delle leggi federali non è più quella cartacea, ma quella pubblicata in Internet sulla piattaforma di pubblicazione. Secondo il Consiglio federale il carattere determinante precedentemente accordato alle pubblicazioni cartacee non rifletteva ormai più «le abitudini, e ancor meno le aspettative, della maggior parte degli utenti» (Messaggio del 28 agosto 2013, Cambiamento della versione determinante: dalla versione cartacea a quella elettronica; FF 2013 6070). Ma quali sono esattamente le abitudini e le aspettative degli utenti? A più di sei anni dall’entrata in vigore di quello che possiamo quasi definire un cambiamento di paradigma del sistema delle fonti del diritto svizzero un recente sondaggio condotto dal Servizio di biblioteca del Tribunale penale federale offre interessanti spunti di riflessione. Ne emerge un quadro differenziato degli «usi e costumi» degli utenti di risorse legislative, giurisprudenziali e dottrinali. Se il digitale predomina per quanto riguarda la ricerca e tutta una serie di utilizzi funzionali al rapido raggiungimento delle fonti più pertinenti, il cartaceo mantiene la sua importanza al momento dello studio, dell’analisi e dell’approfondimento. Criterio determinante appare dunque quello temporale (efficienza/rapidità della ricerca versus profondità/lentezza dello studio). Si tratta di risultati che non sorprendono alla luce di quanto le neuroscienze ci insegnano da tempo, ovvero che la lettura esclusivamente digitale ostacola la comprensione, l’analisi, il pensiero complesso e addirittura lo sviluppo dell’empatia. Se questi limiti della lettura digitale potranno in futuro essere superati dai miglioramenti tecnologici, oppure se quest’ultimi si scontreranno ancora a lungo con una biologia dell’homo sapiens che è comunque ancora quella della rivoluzione cognitiva di circa 70’000 anni fa, per il momento è difficile dirlo. Nell’hic et nunc prevale comunque ancora un sistema ibrido.
Parallelamente alla nascita del Tribunale penale federale di Bellinzona, che ha iniziato la propria attività nella capitale ticinese nel 2004, sorge la necessità di creare una biblioteca per accompagnare il lavoro di giudici e cancellieri. Anzitutto grazie alla passione e all’impegno della sua prima bibliotecaria, Francesca Manenti Pretolani, nasce così da zero una biblioteca di diritto, che si sviluppa e si amplia negli anni seguendo il ritmo del Tribunale.
La biblioteca del Tribunale penale federale è una biblioteca specializzata in diritto penale svizzero, aperta esclusivamente ai collaboratori del Tribunale. La sua funzione è quella di fornire il supporto scientifico all’attività di giudici e cancellieri, mantenendo una collezione sempre aggiornata, che riflette i temi trattati nelle tre corti del Tribunale (Corte penale, Corte dei reclami penali e Corte d’appello). La collezione della biblioteca si sviluppa quindi in un ambito disciplinare ben delimitato. La maggior parte dei libri posseduti dalla biblioteca riguarda, infatti, i vari rami del diritto, sia in ambito svizzero sia in quello internazionale. Per la sua specializzazione, la categoria del diritto penale svizzero è quella maggiormente sviluppata a livello quantitativo.
Una biblioteca di questo tipo deve essere particolarmente attenta ai bisogni dei suoi utenti, che possono modificarsi anche in modo repentino. Il sondaggio sulle risorse digitali di cui discuteremo in questo articolo si inserisce nell’ottica di adattare l’offerta della biblioteca ai possibili nuovi bisogni dei nostri utenti.
Dopo il trasloco (avvenuto nel 2013) del Tribunale nella sua sede definitiva nell’edificio in stile neoclassico di viale Franscini, nel luogo dell’ex Scuola di commercio, la biblioteca si situa al 2° piano dello stabile, in uno spazio predisposto ad accogliere la sua collezione libraria, i suoi periodici ed alcune postazioni di lavoro per la ricerca nel catalogo e per la consultazione di banche dati online. Situata esattamente sopra l’aula penale – quasi a simboleggiare il fondamento delle sentenze espresse nel sapere giuridico, filosofico e storico custodito fra i suoi scaffali – la biblioteca si sviluppa intorno a una cupola di forma piramidale, sormontata da un lucernario che illumina entrambi gli spazi.
Ad oggi, la biblioteca conta più di 15’000 documenti, suddivisi in monografie, e-book, collezioni di periodici e articoli. Per quanto concerne i libri, la collezione è composta quasi esclusivamente da documenti cartacei, con l’eccezione di alcune iniziative editoriali che offrono la versione e-book con l’acquisto della risorsa cartacea. Questa situazione risulta da una scelta precisa: nel panorama delle pubblicazioni giuridiche svizzere, le condizioni poste dalle licenze degli e-book ne limitano notevolmente l’utilizzo e il prestito. Dopo un’attenta valutazione, si è scelto quindi di privilegiare le pubblicazioni cartacee, per garantire un utilizzo più flessibile dei documenti e un uso più «democratico» delle risorse. Per quanto riguarda le riviste e i giornali, invece, quando possibile all’abbonamento cartaceo viene aggiunto anche l’abbonamento alla versione digitale.
Il Tribunale non poteva sfuggire al dibattito sulla crescente digitalizzazione nei vari aspetti della nostra vita: sempre di più, infatti, il lavoro di giudici e cancellieri si appoggia a supporti digitali, non solo per aspetti puramente pratici (gestione di incarti, archiviazione di documenti), ma anche per l’attività più concettuale (ricerca, lettura, studio).
Negli ultimi anni sono sempre più numerose le risorse disponibili online. A livello svizzero, le maggiori case editrici giuridiche hanno aumentato considerevolmente la loro offerta di prodotti digitali, non solo libri in formato e-book, ma anche ricche banche dati che danno l’accesso a un grandissimo numero di testi di legislazione, giurisprudenza e dottrina. Sembra quindi imprescindibile, per il Servizio di biblioteca del Tribunale penale federale, occuparsi maggiormente delle risorse digitali. Sorgono spontanei vari quesiti sull’impatto di questa evoluzione: i documenti digitali prenderanno il posto dei libri? Si tratta di una semplice evoluzione, quasi naturale, del supporto su cui leggiamo, oppure il passaggio dalla carta al digitale ha delle implicazioni più profonde?
La celebre affermazione di Marshall McLuhan (1911–1980), «il medium è il messaggio», ci invita a non classificare frettolosamente questi cambiamenti come aspetti puramente superficiali. Così come la nascita della stampa a caratteri mobili nella metà del XV secolo ha dato vita all’«uomo tipografico» e ha posto le basi per l’era moderna (McLuhan 1976), così anche la digitalizzazione porta a cambiamenti nel nostro modo di ragionare e di interpretare il mondo.
Nel capitolo 4 svilupperemo alcune riflessioni sugli effetti del passaggio dalla carta al digitale sul nostro modo di leggere e pensare. Nei prossimi due capitoli ci concentreremo invece sul sondaggio sulle risorse digitali sottoposto agli utenti della biblioteca del Tribunale penale federale.
Durante il periodo 2020–2021 il Tribunale ha adottato alcuni provvedimenti per limitare la diffusione del COVID-19. Oltre all’impiego delle ormai ben conosciute misure igieniche e di distanziamento è stata introdotta e incoraggiata la possibilità del telelavoro. Questa nuova modalità di lavoro ha imposto adattamenti nella gestione dell’infrastruttura e dei suoi servizi interni. In questo contesto la biblioteca ha visto calare in modo significativo l’utenza «in presenza» a favore per contro di una maggiore erogazione dei servizi a distanza, come ad esempio la fornitura di parziali scansioni di opere presenti in biblioteca in formato cartaceo. Ecco quindi che il documento digitale ha improvvisamente acquisito una rinnovata importanza, passando in molti casi da «comodità» a «necessità».
Quali altre conseguenze per il Servizio di biblioteca? Fin da subito abbiamo osservato un importante aumento dell’utilizzo delle banche dati giuridiche. Quest’ultime non sono state introdotte con la pandemia, erano a disposizione già prima. Tuttavia il loro impiego era finora limitato allo stretto necessario, principalmente per una questione legata ai costi, che in alcuni casi, possono essere particolarmente elevati. Dal punto di vista del Servizio di biblioteca è importante capire e interpretare questo cambiamento, sia da un punto di vista budgetario che di coerenza nello sviluppo della collezione libraria. Sono sorte alcune domande: «La pandemia ha accelerato la transizione cartaceo-digitale: si tratta di un cambiamento di paradigma permanente o è soltanto un adattamento temporaneo?», «Quale dovrebbe essere la strategia di sviluppo della biblioteca nel prossimo futuro?».
Per poter rispondere a queste domande abbiamo ritenuto necessario raccogliere maggiori informazioni, sotto forma di dati quantificabili e interpretabili, rispetto all’utilizzo del Servizio di biblioteca e in particolare delle risorse digitali in seno al Tribunale.
Si è deciso quindi di procedere con un sondaggio indirizzato a tutti gli utenti della biblioteca, con lo scopo di definire meglio le reali necessità e aspettative in materia di documentazione digitale.
La fase iniziale del progetto ha visto la definizione delle domande. Per il nostro scopo era di fondamentale importanza riuscire ad ottenere un tasso di risposta globale sufficientemente alto da potersi considerare rappresentativo. Per questo motivo abbiamo cercato di limitare al minimo indispensabile il numero di domande, queste sono state strutturate in modo che fossero di facile comprensione e che richiedessero poco tempo per la compilazione. Abbiamo prediletto quesiti a scelta multipla e risposte brevi. Il risultato è stato un sondaggio composto da sei domande, il cui completamento richiedeva circa 10 minuti.
Nelle prime due domande ai partecipanti è stato chiesto di esprimere delle preferenze rispetto al cartaceo o al digitale. Nel primo caso la preferenza era espressa in funzione dell’utilizzo del documento (lettura, ricerca, comparazione delle fonti e traduzioni), questo nel caso ipotetico in cui l’utente avesse a disposizione sia il formato cartaceo che digitale e potesse scegliere liberamente. Nel secondo caso invece, secondo lo stesso principio, la preferenza verteva sulle tipologie di documento (monografie, articoli, commentari, manuali, giurisprudenza). La scelta del formato preferito per ogni tipo di risorsa, in relazione all’utilizzo, ci avrebbe permesso di mettere in evidenza con precisione possibili vantaggi e svantaggi del digitale rispetto al cartaceo in ogni contesto possibile. Nel caso in cui avessimo riscontrato delle preferenze sostanziali, sarebbe stato possibile determinare, per ogni tipologia di risorsa, il formato prediletto che la biblioteca avrebbe dovuto mettere a disposizione.
Nella terza domanda i partecipanti dovevano indicare il loro grado di soddisfazione rispetto all’attuale offerta della biblioteca in materia di risorse digitali. In caso di insoddisfazione, il partecipante era invitato a motivare la sua risposta. Questa domanda ci avrebbe permesso di individuare possibili lacune dal punto di vista delle necessità degli utenti.
Nella quarta domanda i partecipanti dovevano indicare la loro frequenza di utilizzo per ogni risorsa digitale disponibile in biblioteca. Questo dato ci avrebbe fornito un’indicazione quantitativa sugli strumenti globalmente più utilizzati e la loro importanza per il lavoro quotidiano svolto dalle giuriste e dai giuristi del Tribunale. In base ai risultati avremmo potuto identificare con precisione gli strumenti su cui concentrare maggiori risorse.
La quinta domanda completa la precedente: i partecipanti sono stati invitati a indicare altre risorse digitali a loro conoscenza che attualmente non sono disponibili in biblioteca e che ritengono invece necessarie.
Nella sesta e ultima domanda è stato chiesto ai partecipanti di esprimersi liberamente a proposito della transizione dal cartaceo al digitale e indicare come questo fenomeno condizioni il loro lavoro quotidiano. Le risposte ci avrebbero permesso di raggruppare opinioni e motivazioni a favore o a sfavore della documentazione cartacea rispettivamente digitale. La tendenza globale ci avrebbe svelato il profilo dell’utente «tipo» della biblioteca rispetto alla sua visione, alle aspettative e alle preoccupazioni su questo tema.
Il sondaggio è stato realizzato utilizzando un’applicazione web specifica per questo scopo e gratuita. I partecipanti hanno potuto completare il sondaggio nella loro lingua madre e in maniera anonima. I dati raccolti dai singoli formulari sono stati infine raggruppati sotto forma di tabelle per permetterne un confronto quantitativo.
Esponiamo ora i principali risultati quantitativi emersi dal sondaggio. Il tasso di risposta globale è stato dell’81% (44 questionari completati su 54). Abbiamo ritenuto questo dato sufficiente per considerare i risultati come globalmente rappresentativi.
Le risposte alla prima domanda mostrano una netta preferenza del documento in versione cartacea per le attività di studio e lettura (32 voti a favore del cartaceo contro 8 la cui preferenza va al formato digitale, 4 persone non hanno espresso una preferenza). Questo risultato è quasi perfettamente contrapposto alla preferenza del formato digitale per quanto riguarda l’attività di ricerca (32 voti a favore contro 6 preferenze per il cartaceo, 6 senza preferenza). Per quanto riguarda le altre due attività proposte (comparazione delle fonti e attività di traduzione) la preferenza globale è leggermente spostata sul formato digitale, una buona parte dei partecipanti ritiene comunque di non avere nessuna preferenza.
Nella seconda domanda i partecipanti hanno espresso la loro preferenza riguardo al supporto. Il cartaceo è nettamente preferito rispetto al corrispettivo digitale per quanto concerne le monografie e i commentari. Al contrario, è generalmente preferito il supporto digitale per riviste e articoli, la giurisprudenza e i testi di legge. I voti di preferenza per i quotidiani invece si suddividono equamente tra cartaceo e digitale.
Nella terza domanda 22 partecipanti si dicono soddisfatti dell’attuale offerta digitale messa a disposizione della biblioteca, 11 ritengono di non essere soddisfatti e altri 11 ritengono di non avere abbastanza elementi per poter esprimere un giudizio. Il motivo di insoddisfazione per 10 degli 11 partecipanti che hanno risposto negativamente riguarda l’impossibilità di avere un accesso personale ad una specifica banca dati, il cui accesso attualmente è possibile unicamente attraverso una postazione in biblioteca.
Le risposte riguardo alla frequenza di utilizzo delle risorse digitali hanno evidenziato delle tendenze molto nette che possono essere riassunte facilmente come segue: la maggioranza dei partecipanti sostiene di utilizzare almeno una volta al giorno la banca dati delle sentenze del Tribunale. L’accesso a banche dati specializzate e riviste giuridiche online avviene mediamente meno di una volta a settimana. Per quanto riguarda i quotidiani online la frequenza di accesso è ripartita equamente tra «almeno una volta al giorno» e «meno di una volta a settimana».
Alla quinta domanda 12 partecipanti hanno risposto di non essere a conoscenza di altre risorse digitali che vorrebbero fossero messe a disposizione. I rimanenti 32 non si sono espressi.
All’ultima domanda 36 partecipanti hanno condiviso la loro opinione. Da queste 36 risposte abbiamo potuto dedurre 48 considerazioni che abbiamo raggruppato in 10 temi. Abbiamo infine deciso di categorizzare questi temi come «a favore del cartaceo» e «a favore del digitale» e di metterli a confronto. Il tema di maggiore peso (19 considerazioni) riguarda la necessità di mantenere un ragionevole equilibrio tra l’offerta digitale e quella cartacea. Gli argomenti a favore della documentazione digitale (16 considerazioni) evidenziano i vantaggi per l’attività di ricerca e per il telelavoro. Le considerazioni a favore della documentazione cartacea (11) riguardano principalmente la facilità di lettura, la concentrazione e l’apprendimento.
Proviamo ora a fornire un’interpretazione ai risultati esposti sopra. La risposta alla prima domanda evidenzia chiaramente come uno stesso documento in formato cartaceo o digitale non sia percepito come equivalente. Il tipo di attività che deve essere svolta è determinante nella scelta di un formato piuttosto che un altro. In particolare constatiamo che attività che necessitano un’attenzione a porzioni limitate di testo e per un breve periodo, come appunto la ricerca, la comparazione delle fonti e le traduzioni, sono preferibilmente svolte su supporti digitali. Questa tendenza è sicuramente supportata anche dalla tecnologia: il mondo digitale offre infatti un’ampia gamma di strumenti molto performanti e pratici che permettono di svolgere rapidamente e efficacemente compiti come la ricerca di parole chiave o frasi all’interno di un testo, la ricerca documentaria attraverso motori di ricerca e cataloghi specializzati e molto altro. Quando però l’attenzione e il tempo richiesti sono maggiori, come per le attività di lettura e studio, il supporto cartaceo risulta essere la soluzione ottimale e preferita. Questa tendenza viene confermata anche dalle risposte alla seconda domanda, dove monografie e commentari sono nettamente preferiti in formato cartaceo rispetto al loro corrispettivo digitale. Risulta interessante anche il risultato riguardo ai quotidiani, che non mostra una tendenza netta. Potremmo facilmente classificare questa tipologia di supporto come «a lettura breve» e quindi attribuire alla sua versione digitale una maggiore fruibilità o apprezzabilità generale, tuttavia non è così. In questo caso pensiamo che possano entrare in gioco altri fattori, che esulano dal contesto professionale, come le abitudini personali e altri aspetti socioculturali.
Per quanto riguarda la pertinenza dell’offerta di risorse digitali della biblioteca possiamo affermare che in generale i bisogni sono soddisfatti. Un aspetto che sarà ulteriormente analizzato riguarda il possibile potenziamento delle banche dati specializzate, in particolare riguardo alla loro fruizione in un contesto di telelavoro.
L’analisi sulla frequenza di utilizzo delle risorse digitali mostra come la maggior parte degli utenti acceda relativamente di rado agli strumenti a disposizione, eccezion fatta per la banca dati delle sentenze del Tribunale e dei quotidiani online. Non abbiamo potuto identificare delle risorse sulle quali è necessario investire.
Da parte dei partecipanti non sono state segnalate ulteriori risorse particolari che dovrebbero essere messe a disposizione. Ne deduciamo che la scelta degli strumenti a disposizione al momento in biblioteca è adeguata alle esigenze degli utenti.
Riassumendo quanto è emerso dalle risposte all’ultima domanda, l’utente «tipo» della biblioteca del Tribunale apprezza gli aspetti più pratici legati alla documentazione digitale ma ritiene importante potersi avvalere ancora del corrispettivo cartaceo. A dipendenza dei casi preferisce l’uno o l’altro. In conclusione, i risultati del sondaggio mostrano come non ci sia una vera e propria tendenza a preferire il documento digitale rispetto a quello cartaceo. Dal punto di vista del Servizio di biblioteca entrambi i formati devono essere, nel limite del possibile, messi a disposizione.
Prima di continuare nell’analisi dei risultati del sondaggio è opportuno fare un piccolo excursus nelle neuroscienze. In questo ambito meritano particolare attenzione gli studi di Maryanne Wolf, una delle più famose neuroscienziate cognitiviste, attiva presso la University of California di Los Angeles. L’essenza delle sue ricerche è ben riassunta in un libro divulgativo relativamente recente, tradotto in italiano con il titolo «Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale» (2018), in cui la studiosa si rivolge al lettore in una serie di lettere scritte in prima persona illustrando i profondi mutamenti che sta subendo la lettura a seguito della digitalizzazione. In pericolo appare in modo particolare la cosiddetta lettura profonda, quella che permette di immergersi in un testo con grande attenzione a parole e significati, producendo ragionamenti e collegamenti che stimolano il nostro cervello, rafforzando non da ultimo l’empatia attraverso il tipico processo di immedesimazione nei personaggi che conosciamo dalla lettura dei romanzi. È proprio da questo processo di immedesimazione che veniamo educati ad una migliore comprensione delle emozioni altrui anche nel mondo reale. Come scrive Giorgio Vallortigara, «quando leggiamo è come se letteralmente sentissimo (con la corteccia somatosensoriale) e ci muovessimo (con la corteccia motoria) nel modo in cui sentono e si muovono i personaggi della storia in cui ci immedesimiamo» (2022). Non a caso una studiosa della storia dei diritti umani come Lynn Hunt sostiene che siano la diffusione e il grande successo di romanzi epistolari settecenteschi come quelli di Jean-Jacques Rousseau (1712–1778) e Samuel Richardson (1689–1761) ad avere preparato il terreno allo sviluppo delle moderne teorie occidentali in difesa dei diritti umani, in virtù del fatto che le élites intellettuali avessero imparato attraverso queste letture a immedesimarsi nei differenti personaggi e a meglio capire le emozioni e quindi anche le sofferenze altrui (Hunt 2007).
Tornando agli studi di Maryanne Wolf non si tratta certamente di demonizzare la lettura digitale, anzi. Se da un lato la lettura digitale porta il cervello a girovagare in maniera superficiale fra la marea di stimoli testuali a cui siamo continuamente esposti, esportando per di più questo modo dispersivo di leggere anche nella lettura su carta, ciò non toglie che la plasticità del cervello possa essere sfruttata mediante una sua «bi-alfabetizzazione», a cominciare dai più piccoli, affinché possano diventare buoni lettori e nel contempo buoni utilizzatori degli strumenti digitali del futuro (Wolf 2018, 157–173). Sta dunque a noi, non rimpiangere un passato che comunque non torna, ma trarre il meglio dalle moderne tecnologie senza perdere però l’abitudine alla lettura profonda, all’attenzione, alla concentrazione, alla lentezza, alla fatica ma anche al piacere dell’immersione critica nei testi.
Visto il funzionamento del cervello durante la lettura e l’apprendimento, sarebbe superficiale liquidare la scelta dei materiali su cui vengono trascritte le leggi come un atto anodino. Pensiamo alla famosa stele di basalto esposta al Museo del Louvre di Parigi, su cui è incisa in scrittura cuneiforme la raccolta di 282 articoli di legge, conosciuti come il Codice di Hammurabi, dal nome del sesto re della prima dinastia di Babilonia, sul trono dal 1792 al 1750 a.C., che ne ordinò la promulgazione (v. André-Salvini 2008 e Dalley 2016, 142–149). Si tratta di una stele alta più di due metri scoperta nell’inverno tra il 1901 e il 1902 nell’acropoli di Susa, l’odierna Shush in Iran, durante una spedizione francese guidata dall’archeologo Jacques de Morgan (1857–1924). In origine, la stele era probabilmente esposta in un tempio nell’antica città di Sippar, nell’odierno Iraq, da cui fu asportata nel XII. secolo a.C. dagli invasori elamiti che la portarono nella capitale del loro regno, appunto a Susa (D’Agostino/Cingolo/Spada 2016, 103). Il basalto è una roccia eruttiva effusiva, in genere di colore nero, caratterizzata da elevata resistenza alla compressione. Il termine deriva da un latino tardo basaltes, lettura erronea del grecismo pliniano basaniten «rocce etiopiche dure e nere» (Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXVI 58). Nella scelta di un simile materiale, in una civiltà in cui si era abituati a scrivere sull’argilla1, è difficile non intravvedere un parallelo con la volontà regia di promulgare una legislazione destinata a durare a lungo nel tempo, a fronte del vasto impero creato da Hammurabi in Mesopotamia, dopo la liberazione dalla soggezione assira e l’abbattimento della dinastia di Mari, l’antica città che rappresentò uno dei poli della civiltà mesopotamica tra il III. millennio e il XVIII. secolo a.C. Del resto, molto più che la legislazione e l’impero di cui fu espressione fu di lunga durata il materiale in cui questa raccolta di leggi venne incisa. E con esso, l’immaginario che da questa stele promana, legato alla volontà regia di rendere giustizia, ben espressa nel suo epilogo: «L’uomo oppresso, che abbia una causa (da dirimere), venga di fronte alla mia statua (di) ‹Re di giustizia›, legga ad alta voce la mia stele iscritta e ascolti le mie parole preziose (affinché) la mia stele possa mostrargli (la soluzione della sua) causa! Guardi il suo verdetto, il suo cuore si pacifichi» (cit. in D’Agostino/Cingolo/Spada 2016, 105).
Destino parzialmente diverso per un’altra famosissima raccolta di leggi, quella delle Dodici Tavole nell’antica Roma (451–450 a.C.). Secondo lo storico Tito Livio (59 a.C.–17 d.C.) le «leges XII tabularum» erano niente meno che «fons omnis publici privatique iuris» (Ab urbe condita, 3, 34, 6). A prescindere dal fatto che questa affermazione fosse o meno esagerata, è indubbia l’aura che caratterizzava questa legislazione e che conservò ben oltre l’età repubblicana in cui fu concepita e promulgata. Un’aura che aveva indubbiamente quando, secondo una diffusa e autorevole tradizione, era incisa nel bronzo2, ma che non scomparve nemmeno dopo che quell’antico supporto fu soppiantato da materiali più deperibili nonché dalla memoria dell’uomo. A tal punto da essere ancora onnipresente nel Corpus iuris civilis di Giustiniano (482–565 d.C.) e quindi nel monumento legislativo e scientifico (cartaceo) a cui dobbiamo in gran parte la persistenza e la conoscenza del diritto romano nei secoli successivi fino ad oggi.
A differenza della stele del Codice di Hammurabi, l’originale delle Dodici Tavole non si è conservato a lungo3. Ma né la loro monumentalità né la loro pubblicità vennero meno dopo la loro probabile distruzione o scomparsa in un incendio ad opera dei Galli, agli inizi del IV. secolo a.C. Al contrario, cominciò allora una loro nuova, ancora più resistente storia, fatta di studio mnemonico nelle scuole, di trasmissione orale, di utilizzo processuale e retorico, di tradizione manoscritta. La trasformazione non fu però soltanto fisico-materiale ma anche giuridico-metodologica: insomma un conto è porre nel cuore pulsante della vita pubblica una stele di bronzo (o al limite anche di legno come sembrerebbe indicare il giurista Sesto Pomponio4); un altro conto è avere a che fare con un testo da studiare a memoria a scuola, oppure da utilizzare come appiglio retorico in un processo, oppure ancora da rielaborare scientificamente nel Corpus iuris civilis. È come se ci fosse un’interferenza reciproca tra supporto fisico e metodologia giuridica. Forse per questo non è stato necessario ricostruirle dopo l’incendio gallico: i Galli hanno distrutto un supporto che nel frattempo era già stato superato dall’evoluzione del sapere giuridico. Come ricordato da Marie Theres Fögen (1946–2008) nelle sue «Römische Rechtsgeschichten», il bronzo è pensato per l’eternità, ma la forza e l’originalità del sapere giuridico romano si fondava sull’attività giurisprudenziale del pretore e per questa carica annuale si adattava molto meglio una tavola cerata da cancellare e riscrivere all’inizio di ogni singolo mandato pretorile (2002, 186).
Ma cosa ci dicono oggi queste antiche storie, a fronte di un sapere giuridico trasmesso sempre meno sulla carta – per tacere del basalto, del bronzo o delle tavole cerate – e sempre di più in maniera digitale? Ci dicono che il supporto su cui le leggi vengono scritte e trasmesse non è un elemento accessorio: il supporto racconta anch’esso una storia, racconta qualcosa della civiltà in cui le leggi vengono promulgate e della longevità di queste stesse leggi. È forse un caso che il Codice penale svizzero, che dovrebbe essere espressione della volontà di tutelare con lo ius puniendi statale i beni giuridici più importanti di una società, dopo una prima fase di relativa stabilità (puramente cartacea, visto che nella prima fase della sua storia non c’era certamente una piattaforma informatica su cui pubblicarlo), sia stato negli ultimi decenni oggetto di così ripetute riforme? Possibile che i beni giuridici più importanti da tutelare con quella che dovrebbe essere l’ultima ratio dell’intervento statale continuino a modificarsi? Forse che in tutto questo attivismo legislativo giochi un ruolo anche la natura apparentemente immateriale del supporto su cui il diritto viene pubblicato (anche se in realtà il silicio dei circuiti integrati è tutt’altro che immateriale, per tacere delle materialissime infrastrutture su cui Internet si regge)? Si tratta di interrogativi a cui non è possibile qui rispondere, ma che in controluce è forse bene tenere presenti perché sono una possibile espressione di quella che Zygmunt Bauman (1925–2017), definiva «modernità liquida», caratterizzata da un generale smantellamento di ogni sicurezza sociale e da forme di vita accomunate dalla fragilità, dalla provvisorietà, dalla vulnerabilità e dalla tendenza a cambiare continuamente (2000/2011, VI). Da questa frenesia ossessiva del cambiamento, del divenire a scapito dell’essere, non sembrerebbe rimanere immune nemmeno la legge, addirittura in quello che dovrebbe essere il suo più stabile zoccolo duro: il Codice penale, appunto.
Lasciando da parte per il momento il diritto penale è forse bene chinarsi su un famoso articolo del Codice civile svizzero (CC), con riverberi in tutto l’ordinamento giuridico, che sembrerebbe invece avere resistito al passaggio da una modernità solida ad una modernità liquida: l’articolo 1.
In base all’art. 1 CC la legge si applica a tutte le questioni giuridiche alle quali può riferirsi la lettera od il senso di una sua disposizione (cpv. 1). Nei casi non previsti dalla legge il giudice decide secondo la consuetudine e, in difetto di questa, secondo la regola che egli adotterebbe come legislatore (cpv. 2). Egli si attiene alla dottrina ed alla giurisprudenza più autorevoli (cpv. 3). Si tratta di una famosissima disposizione in vigore in Svizzera dal 1. gennaio 1912 (v. Caroni 2015, 46–49).
Ha cambiato qualcosa a tal proposito l’entrata in vigore del nuovo art. 15 cpv. 2 LPubb? Apparentemente no, perché il sistema delle fonti del diritto privato svizzero, ma in generale di tutto l’ordinamento giuridico svizzero, continua tuttora a porre al centro la legge, seguita dalla consuetudine e poi dal diritto giudiziale. Nel creare diritto giudiziale «modo legislatoris» il giudice utilizza inoltre come strumenti ausiliari la dottrina e la giurisprudenza.
A ben vedere, per quanto riguarda la consuetudine in senso stretto, non dovrebbe essere in effetti cambiato un granché: il supporto con cui si tramanda è di altro tipo: nasce da atti ripetuti per un determinato lasso di tempo (longa consuetudo) corroborati dalla convinzione dei consociati che si tratti di diritto (opinio iuris sive necessitatis). È vero che questi atti si possono manifestare anche su supporti cartacei o digitali, nella misura in cui si possono consolidare in documenti, sentenze, o altre tracce scritte. Ma la loro forza vincolante non nasce da queste tracce scritte, ma dal fatto che determinati atti ripetuti nel tempo (elemento oggettivo) siano considerati diritto (elemento soggettivo). Poco importa dunque come si manifestino questi atti, importante è la combinazione di entrambi gli elementi. Certo esistono teorie molto raffinate, come quella sviluppata da Norberto Bobbio (1909–2004), che mettono in discussione la necessità dell’elemento soggettivo ed insistono sul lato oggettivo della consuetudine, descritta come fatto normativo (1942). Ma questo non è decisivo nel contesto della presente analisi, perché anche come fatto normativo la consuetudine non trae vigore dalle sue modalità di espressione (oralità, scrittura, comportamenti materiali) ma dalla continuità e ripetitività di determinati atti (v. Garré 2005, 278–284).
Nulla di tutto ciò per quanto riguarda la legge, la dottrina e la giurisprudenza, le quali devono essere scritte da qualche parte per essere prese in considerazione. Possiamo dire che la scrittura è connaturata alla legge, alla dottrina e alla giurisprudenza. Nel penale questo trova espressione nell’adagio: nulla poena sine lege scripta (v. Popp/Berkemeier 2019, n. 24 ad art. 1 CP).
Per la giurisprudenza si può forse immaginare un’eccezione nella fase in cui una sentenza (destinata a fare giurisprudenza) è stata pronunciata oralmente in base all’art. 59 della legge sul Tribunale federale (LTF), rispettivamente all’art. 84 cpv. 1 del Codice di procedura penale (CPP) nonché dell’art. 239 cpv. 1 lett. a del Codice di procedura civile (CPC), ma ciò non toglie che poi sarà decisiva la motivazione scritta ex art. 60 LTF, rispettivamente art. 80 cpv. 2 CPP nonché art. 239 cpv. 2 CPC. Tutt’altro discorso per la legge: una legge orale è praticamente una contradictio in adiecto. Lo si è visto anche in tempi di pandemia. Le numerose conferenze stampa del Consiglio federale o dei governi cantonali servivano a presentare e spiegare (oralmente) in tempi rapidi le novità legislative (v. Stöckli 2020, 10 e Gianoni 2022, 60–61), ma ciò non toglie che determinante fosse la pubblicazione (scritta) urgente ai sensi dell’art. 7 cpv. 3 LPubb (v. ad esempio l’art. 5 dell’ordinanza sui provvedimenti per combattere il coronavirus del 28 febbraio 2020). Sono in questo senso soltanto indirettamente paragonabili alla comunicazione da parte dei banditori che nel Medioevo o nella prima Età moderna annunciavano pubblicamente, tra le altre cose, le nuove ordinanze del Signore o del Comune5, visto che in quel caso si trattava esplicitamente di supplire ad un deficit di conoscibilità diretta da parte dei sudditi e dei cittadini delle nuove leggi (cartacee) in vigore, visti i pochi esemplari allora in circolazione. Oggi, invece, grazie proprio all’art. 15 cpv. 2 LPubb, non c’è più nessun dubbio in merito alla perlomeno potenziale accessibilità delle ordinanze in materia di COVID-19, come delle altre leggi contenute nella raccolta ufficiale, per cui le conferenze stampa in questione rientrano essenzialmente in una logica di comunicazione e persuasione democratica, di fronte all’eccezionalità di un evento quale la pandemia, ma non sono decisive ai fini della conoscibilità o addirittura validità della legge.
Torniamo però all’art. 1 CC. Prendiamo atto che legge ai sensi dell’art. 1 cpv. 1 CC, a partire dal 1° gennaio 2016, non è più, in primis, il Codice in senso stretto, inteso come raccolta rilegata di articoli di legge, ma ciò che leggiamo, da qualsiasi apparecchio elettronico (poco importa se un PC, un laptop, un tablet o uno smartphone), da qualsiasi parte del mondo e a qualsiasi ora, accedendo semplicemente al sito Internet ufficiale della Confederazione. In questo campo, il sondaggio qui in esame, ci dice che gli utenti della biblioteca del Tribunale penale federale preferiscono in effetti questo tipo di consultazione della legge. I vantaggi sono evidenti: rapidità della ricerca, garanzia di attualità del testo di legge, facilità del copia/incolla, presenza di comodi strumenti di confronto fra le varie versioni linguistiche o del diritto intertemporale, ecc. Se ne può dedurre che quando il Consiglio federale parlava nel suo Messaggio delle mutate abitudini degli utenti, aveva indubbiamente ragione.
Tuttavia, come dice lo stesso articolo 1 al capoverso 3, il lavoro del giurista non finisce certamente qui: sarebbe troppo facile. Per interpretare una legge si devono conoscere anche la dottrina e la giurisprudenza. E qui le cose si complicano. Se in effetti per la consultazione della giurisprudenza il sondaggio mostra una prevalenza dell’accesso mediante banche dati digitali, in genere gratuite, per quanto riguarda la non meno importante consultazione della dottrina occorre differenziare.
Per la ricerca prevalgono gli strumenti digitali, ma per lo studio quelli cartacei. Qui sembra decisivo il criterio temporale: rapidità della ricerca versus lentezza dello studio. Tutto sommato comprensibile, se confrontiamo il tutto con le evidenze neuroscientifiche di cui sopra. È come se nel proprio lavoro quotidiano il giurista oscillasse tra due mondi. Digitale per la legge, per la giurisprudenza ed in generale per la ricerca. Cartaceo per l’approfondimento su manuali e commentari, insomma per capire bene le cose.
Se parlare di un cambiamento di paradigma metodologico è forse eccessivo, è comunque possibile parlare di un fondamentale cambiamento nelle modalità materiali in cui i giuristi si muovono tra le fonti del diritto. Se un tempo ci si doveva regolarmente alzare dalla propria scrivania dopo avere consultato i Codici cartacei e i libri che trovavano spazio sul tavolo, ora una buona parte del lavoro avviene di fronte allo schermo, il che, detto per inciso, non è proprio l’ideale in termini di ergonomia. Ma ciò non toglie che i commentari, i manuali, e in minore parte anche le riviste scientifiche, preferiamo, perlomeno al TPF, consultarli ancora in forma classica. Alzandosi quindi dalla scrivania e prendendo i libri dagli scaffali di una biblioteca. E qui la frenesia «liquida» della ricerca, si arresta un po’. È come se il nostro cervello avesse bisogno di una periodica pausa di riflessione per ricalibrare il tutto, per orientarsi meglio fra quanto raccolto a livello legislativo e giurisprudenziale. Qui, la «modernità liquida» di cui parla Zygmunt Bauman, ritorna in parte ad essere «solida».
Altro discorso è quello di sapere per quanto ancora. Detto in altro modo: si tratta di una necessità biologica insormontabile oppure semplicemente di un limite delle moderne tecnologie? Ai futurologi il compito di dirlo, anche se i sopraccitati studi di Maryanne Wolf dimostrano che più che di biologia si tratta di cultura: l’alfabetizzazione è infatti considerata «una delle più importanti conquiste epigenetiche dell’Homo sapiens», precisato che «l’atto di imparare a leggere ha aggiunto un circuito interamente nuovo al repertorio del nostro cervello ominide. Il lungo processo evolutivo di imparare a leggere bene e in profondità ha cambiato la struttura stessa delle connessioni di quel circuito, il che ha ricablato il cervello, e questo a sua volta ha riplasmato la natura del pensiero umano» (Wolf 2018, 9; v. anche Dehaene 2009, 139–223 e Wolf 2009, 9–58). Forse la fantascienza potrebbe venirci in aiuto pensando alle raffinatissime tecnologie olografiche che vediamo già in molti film, da Star Trek a Star Wars, da Blade Runner 2049 ad Avatar, o anche all’apparecchio immaginato da Frank Herbert in Dune per leggere la minuscola «Bibbia Cattolica Orangista» in un universo in cui predomina comunque il «librofilm». Non è più fantascienza, per contro, quello che già sta avvenendo con le applicazioni di intelligenza artificiale in ambito giuridico (Legal Tech; v. Hoffmeyer 2022).
Senza scomodare la fantascienza o l’intelligenza artificiale, limitiamoci per concludere a constatare che oggi come oggi, in base al presente sondaggio, risulta ancora persistere un approccio ibrido alle fonti del diritto (in senso lato, più che altro come «Rechtserkenntnisquellen» visto che la giurisprudenza e la dottrina sono di per sé mezzi ausiliari ex art. 1 cpv. 3 CC, e non hanno la stessa forza normativa della legge o della consuetudine, in quanto «Rechtsgeltungsquellen»), dove indubbiamente quelle disponibili in via digitale avanzano molto, ma senza per questo rendere quelle cartacee una specie in via d’estinzione. Per tacere delle molte volte in cui, con buona pace dello spreco ecologico di carta, siamo tentati comunque di stampare ciò che vediamo sullo schermo e non solo per questioni pratiche, ma proprio per una lettura più approfondita e attenta, poco importa se si tratta di leggi, di sentenze, di allegati, di verbali o di qualsiasi altro documento con cui i giuristi hanno quotidianamente a che fare.
Roy Garré, PD Dr. iur., Tribunale penale federale, roy.garre@bstger.ch.
Oscar Guzzon, Specialista in informazione e documentazione, Tribunale penale federale, oscar.guzzon@bstger.ch.
Barbara Rossi, Specialista in informazione e documentazione, Tribunale penale federale, barbara.rossi@bstger.ch.
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- 1 Parti del testo sono infatti tramandate anche su numerose tavolette d’argilla (v. D’Agostino/Cingolo/Spada 2016, 103).
- 2 Così, oltre allo stesso Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso e Diodoro.
- 3 Fögen parla di un testo virtuale (2002, 69–74).
- 4 V. Bretone 1995, 86.
- 5 Nell’etimologia delle «gride» di manzoniana memoria, nel senso di editti, ordinanze, avvisi dell’autorità, si annida non a caso la tradizione di farle appunto «gridare» pubblicamente dai banditori (v. De Mauro 2007, vol. IV, 72), ovviando così non soltanto alla limitata circolazione di esemplari cartacei ma anche alla scarsa alfabetizzazione della popolazione.